Non giriamoci tanto attorno, magari in cerca di parole bon ton, la rovina dell’alluvione ha mandato, quasi completamente in malora, più efficacemente detto a puttana il patrimonio archivistico ed altri beni culturali del Comune di Forlì, custoditi nella sede di via Asiago. In quelle stanze devastate è finita in una poltiglia di carta e fango, in un’accozzaglia di frammenti e relitti una parte significativa della memoria storica forlivese, cartacea e museale. Un disastro certo imprevedibile con tali proporzioni, tuttavia reso più probabile dall’insipienza umana.
Ho scorso a lungo le tante fotografie dei locali via Asiago alluvionati e più di qualcosa mi parla del nonsenso di talune scelte: innanzitutto, la sede in edificio ad un solo piano, soprattutto nel raggio d’azione di un corso d’acqua, quale il Montone, a volubile carattere torrentizio e con letto ristretto ad argini ravvicinati, nel suo avvicinamento alla città; poi l’idoneità delle scaffalature, numerose delle quali negli scatti fotografici rivelano instabile fissazione a terra e in continuità tra loro, oltre che un’oggettiva deformazione dei palchetti di carico e conseguente forzatura degli incastri di aggancio dei piani stessi alle colonne; ancora, la mancata collocazione dei pezzi, museali e non, più preziosi entro armadi a chiusura bloccata o comunque entro spazi di adeguata sicurezza per i beni di maggiore grandezza, tutto per prevenirne la dispersione in giro negli spazi allagati; infine, e non mi pare poca cosa, mi chiedo se i locali di via Asiago fossero dotati di rivelatori e fotocamere, anche ad alimentazione autonoma automatica, per allarme di sinistrosità in atto ad una centrale operativa.
Aggiungo pure, checché possa discuterne qualcuno, che una delle priorità nella realizzazione della nuova sede dell’Archivio di Stato a Firenze, in viale Giovine Italia, fu la realizzazione di una struttura stagna, a tenuta d’acqua, memori della rotta d’Arno del ’66: forse qualcosa di simile o prossimo a questa precauzione dovrebbe applicarsi sempre; quindi pur minima sarebbe stata opportuna anche nei locali del Comune di Forlì in via Asiago. Sicuramente mi si obietterà quanto sia facile parlare o scrivere col senno di poi sul latte versato, ma credo che in questo caso sia legittimo, perché fondato, interrogarsi sia su una, perlomeno precaria, perché minima o inesistente, prevenzione sia su quanta sinora sia stata la consapevolezza degli amministratori forlivesi circa la responsabilità di custodire la memoria cittadina nella struttura di via Asiago. Proprio questa consapevolezza del valore del patrimonio culturale sospinge sempre la prevenzione di suoi eventuali danneggiamenti, dunque un aspetto fondamentale della tutela per garantire la futura valorizzazione e promozione.
Tanto a lungo ho lavorato, quale funzionario scientifico, del Ministero per i beni e le attività culturali, un po’ su tutte le tipologie di beni, esclusi quelli archeologici, per non provare amarezza, sconforto davanti alle foto dello scempio di via Asiago. Diciamo la verità: l’archivio comunale, corrente e di deposito, consultabile occasionalmente a richiesta, e diverso materiale di finalità museale erano, sino ad oggi, accolti in locali, simili per la tipologia organizzativa dei loro spazi soltanto ad una vasta rimessa, ove riporre quanto ingombrante per spicciare spazio altrove. Infelice, qualcuno se ben ricordo già lo scrisse a suo tempo, fu la scelta amministrativa, precedente la sindacatura di Gian Luca Zattini, di allocare nel luogo, ora di tanta sventura, parte della memoria storica forlivese, archivistica e museale, pure in donazione da privati.
In via Asiago a Forlì l’insipienza umana è andata in deroga al buonsenso applicativo della cosiddetta archiveconomia ovvero quella disciplina, inclusa nell’archivistica, che si occupa dell’organizzazione degli archivi, quindi della rispondenza degli edifici utilizzati a tal scopo, della stessa sistemazione delle scaffalature e la cura dei beni custoditi da ogni pericolo o avversità. Adesso, tutti accorrono ad ispezionare l’accaduto: politici, amministratori, autorità ministeriali. Tanti si accorgono solo ora della grave, assoluta mancanza di digitalizzazione del materiale archivistico di più frequente consultazione, quali le pratiche edilizie dei privati e di urbanizzazione della città. Troppi, in questa tragedia del patrimonio culturale forlivese, sognano una rievocazione provincialotta degli “angeli del fango di Firenze” nei cosiddetti “burdel de paciug” ovvero i ragazzi della poltiglia. Semper mala tempora currunt!
Franco D’Emilio