Oggi a Forlì i premiati del concorso letterario Auser

convegno

Oggi alle ore 16,00 nella Sala Consiglio del Palazzo della Provincia di Forlì si è svolta la premiazione della XXXII edizione del Premio Letterario “Dare vita agli anni”, promosso dall’Auser di Forlì e articolato nelle due sezioni della prosa e della poesia. Lodevole iniziativa culturale di questa associazione forlivese di volontariato e promozione sociale, da tempo impegnata a favorire l’invecchiamento attivo degli anziani, valorizzandone il ruolo nella società. Dopo oltre 25 anni di silenzio, seguiti a diversi premi, fra i quali la vittoria al Mystfest-Gran Giallo Città di Cattolica con “L’uomo degli atti criminali”, sono tornato a scrivere narrativa, proprio partecipando a questo Premio con il racconto inedito “Addio Lugano bella”, dedicato alla figura di un anarchico carrarino e qui, di seguito, riportato.

Lo spunto è storico, come maggiormente sta nelle mie corde, ma qui racconto soprattutto la fedeltà e la coerenza di vita, il rigore umano e morale di un uomo fermo nella sia piena adesione all’Idea, l’ideale anarchico. Non condivido né il pensiero né la lotta anarchica, però un anarchico è stato fra i miei migliori maestri negli anni della formazione: naturalmente, parlo di un vero anarchico, non di un odierno “anarchico insurrezionalista informale”, solo terrorista e violento sovversivo, però, alla fine, “piagnucoloso digiunatore” per cavarsi dai guai! L’Auser di Forlì mi ha offerto davvero la preziosa occasione per tornare a scrivere narrativa, di questo ringrazio gli organizzatori nella figura della presidente Maria Luisa Bargossi. Un saluto ai premiati e segnalati del premio.

 

Addio Lugano bella

A volte, un’auto forestiera abbandonava la panoramica delle Apuane e si arrampicava verso le cave più nascoste, in alto sopra Carrara. La strada, tagliata nella pietra nuda, procedeva sempre più tortuosa, angusta tra la roccia e, magari, lo strapiombo su un rapido torrente, ma l’auto tirava le marce e piano proseguiva rasente i paracarri, i muretti verniciati di biacca. Ogni tanto, s’attraversava un borgo coi tetti di ardesia, le finestre piccole, povere di luce, tante case basse e scalcinate lungo pendii ripidi, colorati dalla ginestra, e, ogni volta, l’automobile frenava la sua fatica perché il guidatore, paziente, insistesse nella sua richiesta.
– Primo Nardini abita qui? –
– Avanti, avanti, ce n’è ancora di strada per trovare “Il Libero”. –
Così il forestiero seguitava a salire nelle gole di candido marmo e a chiedere finché non lo rassicurava la risposta d’essere quasi arrivato.
– Dietro quella curva, al Fosso del Diavolo, nella casa sopra la pesa, lì abita “Il Libero” – e il vecchio cavatore con un sorriso nella maschera secca del viso levava il bastone verso un punto indefinito, fuggevole ai suoi occhi velati dalla cataratta.
Tutti conoscevano Primo Nardini e tutti lo chiamavano “Il Libero”, quasi solo così si potesse dire appieno il valore, la fama di quell’uomo caparbio e schivo; il forestiero, però, era di solito ben informato e conosceva la ragione di quel soprannome, tanto famoso nelle cave e nel porto di Carrara.
Come ogni storia che corre di bocca in bocca con toni e particolari sempre più esaltanti, anche la vita di Primo s’era trasformata in una sorta di leggenda, degna d’ammirazione e rispetto. Nel racconto ai ragazzini, attenti e con la candela al naso, le imprese del Nardini erano diventate il racconto di un eroe coraggioso, spesso solo contro tutti.
Finché Primo visse, la gente delle cave gli fu sempre vicina, pronta a difendere la sua vita modesta, tanto tenace e battagliera in nome dell’Idea; se qualcuno chiedeva di lui o saliva al Fosso del Diavolo, tutti rizzavano le orecchie e squadravano bene il forestiero per sincerarsi che non fosse un seccatore o un occhiuto questurino in borghese.
Presto “Il Libero” aveva preso il posto del padre, straziato dalla frustata di un cavo d’acciaio, e, così, s’era ritrovato cavatore a dodici anni, in aiuto alla madre, serva a ore nelle case di città e con altre due bocche più piccole, gracili.
Com’era duro cavare marmo!
La paga non valeva mai la fatica, il pericolo del mestiere e in cava il corpo gelava sotto il maestrale dell’inverno o bruciava nel riverbero del sole estivo, a picco sulla roccia. Quando, poi, si aggiungeva la fame, solo per poco tempo sopita da un pezzo di pane con una fetta di lardo dello zio di Colonnata, allora non restava che la fiasca del vino, forte e traditore, di mano in mano tra i cavatori a bagnare la rassegnazione, lo spasmo dello stomaco.
Così, il giovane Primo s’era fatto uomo proprio a tagliare il marmo dei gradoni, a insaponare la slitta carica di blocchi, poi, però, non aveva più retto al pensiero di non aver domani, per questo s’era gettato nella lotta risoluta, rabbiosa sotto le bandiere nere e rosse dell’anarchia.
Da sempre la riviera apuana era terra ribelle, indomita e il Nardini, dunque, era diventato anarchico, quasi la sua fosse una scelta inevitabile.
“Il Libero” aveva solo la terza classe, ma i suoi migliori maestri furono gli anarchici di Carrara: senza fretta lo avevano spinto a ragionare sulle ingiustizie del mondo, sullo sfruttamento del lavoro, sullo stato patrigno dei padroni; giorno dopo giorno lo avevano persuaso del bisogno di lottare per un mondo diverso, giusto, dove contasse solo l’autonomia, la libertà degli uomini. Alla fine, s’era convinto che valesse la pena provarci a fare la rivoluzione contro lo stato, la proprietà, insomma ogni cappio al collo.
Quanti contrasti, però, con altri compagni di lotta, socialisti o comunisti che fossero!
La fede anarchica di Primo non s’era mai incrinata: sindacalista, aveva messo su gli scioperi contro gli industriali del marmo, per questo conosciuto le bastonate fasciste e l’esilio; in Spagna era stato davvero un eroe, ma aveva pure visto tradire e abbandonare i combattenti anarchici contro Franco; carcerato, era stato ignorato e tenuto a bada dagli altri detenuti antifascisti, tanto settari e parolai.
Evaso, aveva combattuto con i partigiani tra la Lunigiana e le Apuane, ma l’avevano preso, torturato invano: al repubblichino, che lo pestava a sangue per strappargli i nomi dei compagni, si narra che Primo, ormai esausto, mormorasse: – Pesta ancora, son di marmo, mi spezzo e muoio, non mi sbriciolo! – e qui i ragazzini, presi dal racconto, tiravano il moccico di fronte a tanto coraggio.
Tornato libero, il Nardini aveva visto, prima, la ricostruzione e, dopo, il boom economico, insomma tanti nuovi affari per gli stessi pescicani che avevano voluto la guerra; aveva assistito al maggio francese e al nostro autunno caldo; come tanti anarchici, aveva subito accuse, calunnie durante la stagione delle stragi; infine, aveva visto ancora compagni di vario nome diventare maneggioni e corrotti.
Negli ultimi anni Primo aveva riso di chi voleva costruire una nuova Repubblica, distruggendo tutto della precedente, e s’era dispiaciuto della sua vecchiaia quando i figli, addirittura i nipoti dei repubblichini, che pestavano a sangue, erano tornati a farla da padroni con l’aiuto di un palazzinaro, imbonitore televisivo. Per gli anarchici non era cambiato nulla, su di loro pesava sempre il sospetto, “Il Libero” aveva perso il conto dei suoi arresti, delle lune trascorse nel carcere di Massa.
Dal tempo della guerra di Spagna tutta la gente delle cave, ormai, lo chiamava così, “Il Libero”, con l’orgoglio che solo quel soprannome con l’articolo dicesse tutto di un uomo davvero unico, il piede mai fuori dal solco dei suoi ideali, anzi dell’Idea.
Primo Nardini, comunque, era invecchiato a fare il cavatore e non aveva mai lasciato la casupola al Fosso del Diavolo; da lui continuavano ad andare i compagni di lavoro e di fede, ma di tanto in tanto saliva pure l’auto forestiera di uno scultore in cerca di un blocco statuario, bianco e a regola, duro il giusto sotto la punta dello scalpello. “Il Libero” poteva procurarlo: lui conosceva le vene migliori, sapeva leggere il taglio, riconoscere il garbo del marmo; per il suo disturbo non chiedeva nulla, lasciava fare al visitatore.
Assieme i due salivano sino al piazzale della cava e, mentre il forestiero aspettava in macchina, il Nardini cercava tra i blocchi, sussurrando l’antica canzone:

Addio Lugano bella, o dolce terra pia,
scacciati senza colpa gli anarchici van via …

“Il Libero” lo ricordo così, sulle parole di quel canto malinconico tra le candide rocce delle cave sopra Carrara.

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