Più di duemila anni da quelle fatidiche Idi di marzo sotto i pugnali della congiura e in un disperato Tu quoque, Brute, fili mi! (Anche tu, Bruto, figlio mio!), Giulio Cesare è di nuovo a far parlare di sé tutta la città di Rimini, proprio laddove nel 49 a.C., rivolto ai propri legionari, adunati nel foro riminese, oggi corrispondente a Piazza Tre Martiri, li animò a marciare alla conquista di Roma contro il senato e Pompeo. Giulio Cesare ha davvero segnato in modo indelebile la storia, il presente della nota città romagnola, non è un caso che il famoso Alea iacta est (il dado è tratto) sia il motto dominante sul gonfalone cittadino.
Fedele al suo ruolo, sempre tanto discusso e divisivo nella storia dei suoi giorni, Giulio Cesare si ritrova, oggi, a spaccare la città di Rimini, stavolta, però, non per colpa sua, ma per una questione altrui di lana caprina che offende la memoria del personaggio storico e fa dubitare dell’intelligenza di alcuni riminesi.
La questione, infatti, è stata sollevata da un caso sicuramente significativo, ma non tale da potersi ingigantire sino a diventare, per tanta pretestuosa faziosità ideologica, un ennesimo caso clamoroso del rapporto fascismo-antifascismo. Insomma, a Rimini Giulio Cesare è stato messo al bando perché fascista, lo garantisce, ohibò, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia: tutto per colpa di una statua, dono mussoliniano alla città romagnola, raffigurante il nostro celebre protagonista e, adesso, bersaglio della stupida, indiretta proprietà transitiva che tutto quanto sia stato opera del Ventennio debba essere oggetto di irremovibile, persino ingiustificata “damnatio memoriae”, trattandosi, in questo caso, di un monumento con una particolare storia e finalità di donazione.
Veniamo, allora, ai fatti che tanto fan menare il cane per l’aia ai nostalgici partigiani dell’ANPI. Il 10 settembre 1933 a Rimini veniva inaugurata una statua in bronzo di Giulio Cesare, collocata sotto la Torre dell’Orologio, proprio nella piazza dallo stesso anno intitolata al primo dei Cesari, dopo essere stata Piazza delle Erbe e, poi, Piazza Maggiore.
Il monumento, dono del Duce su richiesta, attenzione, del Comune riminese, rispondeva sicuramente anche al culto fascista della romanità e, per questo fu accolto in uno spazio appositamente ad esso dedicato, ma, principalmente completava però quella vocazione alla memoria storica dell’antica Roma che a Rimini si svolgeva e si svolge tuttora lungo il Corso d’Augusto dal Ponte di Tiberio all’Arco di Augusto: quindi, una coerente collocazione perché fortemente identitaria della storia cittadina, dunque fuori da prevalenti motivazioni propagandistiche del regime.
Alla fine della guerra, il 20 giugno 1945, il simulacro cesareo fu rimosso, trasportato in un magazzino, poi sotterrato sul greto del fiume Marecchia; intanto Piazza Giulio Cesare divenne Piazza Tre Martiri, in onore di Mario Cappelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani, tre giovani partigiani catturati e impiccati in quello stesso luogo il 16 agosto 1944: alla storia romana, memoria di valore universale e locale, si sostituiva la storia più recente, di parte e divisiva, celebrativa della Resistenza in una guerra civile fratricida, sicuramente tragica, sanguinosa e degna di rispetto per entrambe le parti in lotta, italiani contro italiani, fascisti contro antifascisti.
La statua riapparve nel 1953, presto affidata, in una sorta di prestito gratuito, al Reggimento Artiglieria di Rimini perché la ponesse a suo simbolo all’ingresso della propria caserma, anch’essa intitolata al grande condottiero; successivamente, sempre vani tutti i tentativi di riportare Giulio Cesare nell’attuale Piazza Tre Martiri, ma nel 2019, anno di chiusura della caserma riminese, si pose il problema della restituzione della statua alla proprietà comunale, riaprendosi, così, la possibilità della sua ricollocazione nello spazio di prima installazione. Intanto, dal 1996 una copia grossolana della statua mussoliniana, realizzata grazie all’impegno del Rotary Club riminese e della Cassa Rurale di San Gaudenzo, è stata collocata all’angolo di Piazza Tre Martiri con Corso d’Augusto, in una posizione davvero infelice e, perlopiù, abbandonata all’incuria.
Adesso, mentre la statua bronzea originale di Benito si trova a Parma per un accurato restauro, a Rimini la sinistra radicale e i nostalgici partigiani dell’ANPI agitano con tanta malafede in un bicchier d’acqua la tempesta tra fascismo e antifascismo: no e poi no al ritorno della statua mussoliniana di Giulio Cesare perché simbolo di una dittatura sanguinaria, pure assassina dei tre martiri, celebrati dall’omonima piazza. Davvero sconcertante questa posizione, fra l’altro, in contraddizione col fatto che, se la damnatio memoriae del fascismo deve essere generale, uniforme, perché allora, ancora a Rimini, non rimuovere anche l’intitolazione a Giulio Cesare, sempre voluta dal regime, dei tre anni del liceo classico (1931) e, successivamente, dell’intero corso quinquennale ginnasio-liceo classico (1941)?
Un acuto militante dell’ANPI riminese mi ha obiettato cinicamente come “Al liceo classico di Rimini mica hanno impiccato dei partigiani, quindi il nome Giulio Cesare, anche se messo dal fascismo, può restare!” Allora, la colpa fascista della statua mussoliniana è quella di essere stata inizialmente collocata in una piazza, in uno spazio dove, poi, c’è scappato il morto, anzi tre morti? Assurda e contrastante questa interpretazione dal momento che, ovunque e su tutto, l’antifascismo condanna senz’appello l’intera opera politica, sociale, economica del fascismo, quindi indipendentemente che ci sia o no scappato il morto!
Compagni partigiani dell’ANPI, chiudetevi in una cameretta a riflettere, in mano la bussola della storia che, ormai, vi segnala fuori strada: sconfitti i vostri ideali maligni e divisivi; umiliata e smontata la vostra caccia nostalgica al fascista e al fascismo; evidente la vostra appartenenza ad una sorta di riserva indiana, beneficiari di contributi e prebende per giocare ancora ai soldatini, eroi partigiani contro vili fascisti.
Contenti voi, per carità, ma perlomeno non parlate pubblicamente a vanvera!
Franco D’Emilio