Ci risiamo, puntuali, al supplizio dell’annuale rottura di palle della dichiarazione dei redditi. Dietro onorario o compenso variabile i commercialisti, i consulenti del lavoro e i patronati sono impegnati nella compilazione e trasmissione dei modelli fiscali dichiarativi dei loro clienti o assistiti; invece, i miseri contribuenti, li definisco tali, me incluso, riferendomi alla loro disgraziata soggezione ad un fisco soltanto vessatorio, devono farsi carico di preparare tutte le carte, i documenti, utili ad un proprio legittimo sgravio fiscale.
Soprattutto, resta doppiamente infelice la condizione del contribuente: da una parte, è sospettato a priori di provare a gabbare il fisco; dall’altra, deve disporsi quasi sempre col cappello in mano, quindi in modo remissivo, a far valere ogni sua legittima pretesa, pur documentata, di beneficio fiscale.
Il fisco italiano è ingiusto perché incapace della valutazione e verifica dell’effettiva disponibilità del cittadino verso l’erario; da vero tagliagola spreme i lavoratori dipendenti; sollecita, poi, le cosiddette partite IVA, le imprese a nascondere qualcosa tra le pieghe dei bilanci; come Ponzio Pilato, pretende molto nella sua veste di esoso esattore, ma si lava perlopiù le mani, appaltando a suoi complici autorizzati il lavoro di controllare, spremere il limone delle dichiarazioni dei redditi.
Sono decenni che sento parlare della necessità di semplificazione e maggiore trasparenza dei meccanismi fiscali, ma sinora solo chiacchere al vento, inascoltate da tanti disegni di legge o riforme, sempre rimasti lettera morta. A tal proposito, ricordo persino mio padre, funzionario del Ministero delle Finanze, con la sua speranza che finalmente si superasse la legge fiscale Vanoni del ’51, cosa, poi avvenuta solo nel 1971, ben vent’anni dopo: se pensiamo però come allora, quella grande riforma fiscale degli anni ’70 dovesse garantire il dettato costituzionale “del concorso di ognuno in ragione della propria capacità contributiva e della progressività”, oggi possiamo amaramente dichiarare, in proposito, il persistente fallimento di quell’intento verso la Costituzione.
C’è una triste verità storica, quella che l’Italia repubblicana con tutta la sua alchimia politica, da destra a sinistra, dal centrodestra al centrosinistra, compresi gli insulsi governi giallo-verde o giallo-rosso, non è stata capace o forse non ha mai voluto una vera equità fiscale. Su questo stesso terreno vedremo e valuteremo anche l’esito di tante proposte dell’attuale destra, ora alla guida di Palazzo Chigi.
Comunque, venerdì scorso, con l’ansia legittima e comprensibile di cavarmi finalmente la rottura di palle della dichiarazione dei redditi, quasi bravo cittadino rispettoso, ma pure timoroso dello Stato, quello con la S maiuscola, ormai sempre più raro, mi sono presentato corredato di ricevute, attestazioni varie e quant’altro utile ad inseguire, se non un rimborso, almeno un pareggio. Sottolineo che molte di queste spese già risultano acquisite dall’Agenzia delle Entrate!
Una fila di box, ciascuno numerato, ben oltre 40, era predisposta per spennare i polli contribuenti, ciascuno dei quali con la sua dichiarazione è pure motivo di erogazione dallo stato al patronato esecutore. M’è andata bene: avrò un rimborso di 34 euro, grasso che cola, nonostante tanto prelievo diretto già sulla mia pensione. Pur di levarmi da tale scocciatura ho tagliato corto sulla destinazione del 5 e dell’8 per mille, troppa e giustificata la fretta di uscire fuori a respirare. In strada un signore anziano malconcio parlava da solo, affannato di non avere avuto dietro la ricevuta degli occhiali nuovi, ma, alla fine, rassegnatosi con un lapidario “Ma che vadano tutti al casino!”
Franco D’Emilio