Ossutamente magro, scarno nel volto spigoloso che richiama la sofferente, ortodossa intransigenza religiosa di un frate domenicano, in questo caso non più “Domini canis” ovvero cane di Dio, ma solo cane del padrone, quel dominus comunista del quale è sempre stato solerte sorvegliante e servitore: questo, in sintesi, Piero Fassino, immarcescibile uomo politico, tutta la vita nel Partito Comunista Italiano e nei suoi trasformistici derivati.
Che delusione, compagno Fassino, mai avremmo immaginato da lei tanta caduta di stile, anzi no, tanto tradimento ideologico e politico! Agitare alla Camera la sua busta paga di deputato per 4.718 euri netti mensili, esclusi tutti i compensi accessori, roba non da poco, con la faccia tosta di dire, quasi infuriato, “non è uno stipendio d’oro”, insomma il giusto per vivere.
È una bella paga, non la guadagna neppure un dirigente della pubblica amministrazione con una discreta anzianità di servizio: nella mia esperienza lavorativa al Ministero per i beni e le attività culturali mai ho saputo di un simile compenso a favore di soprintendenti o direttori di grandi musei o celebri storici dell’arte, tutte persone di grande valore ed esperienza culturale. Ma, allora, ligio e ortodosso compagno Piero Fassino, parafrasando un noto detto romanesco che non cito per evitare la volgarità, ella è stato ed ha fatto il comunista soltanto con i soldi e, aggiungiamo pure, il fondoschiena altrui, quello dei lavoratori dei campi e delle officine, addirittura degli stessi iscritti comunisti, abilmente illusi dal suo fermo, asciutto, ma solamente falso rigore politico.
Ella, dunque, contrariamente alla canzone di Venditti, ha fatto il finto comunista al sole, almeno col buon gusto, per non tradirsi, di non ostentare un Rolex al polso; dietro la scrivania di burocrate del partito o sullo scranno, assai longevo, del parlamentare, ha sempre lasciato che la cosiddetta “base del partito” la precedesse, lei l’avrebbe raggiunta dopo, intanto avrebbe provveduto ai fatti suoi. Si metta una mano sulla sua presunta coscienza, pur se ora minima, di ferreo militante politico della sinistra, e comprenda quanto sconcerto per quel suo volgare, inopportuno agitare la busta paga in mano; soprattutto che ferita mortale da lei inferta al poco orgoglio comunista ancora in vita.
Chissà perché la sua pacchiana prodezza in parlamento ha subito richiamato alla mia mente due espressioni, modi di dire che perfettamente le calzano: “il piatto piange” e “chiagni e fotti”. “Il piatto piange” è espressione in uso nel gioco del poker quando sono scarse le puntate dei giocatori, poi, in modo estensivo, indica anche l’insufficienza di un’utilità, un guadagno personale rispetto alle proprie aspettative: peccato che pianga di più il piatto di tante famiglie dove, oggi, a stento compare un pasto completo. Invece, “chiagni e fotti”, tipica del vernacolo partenopeo, è la sconfortante espressione per stigmatizzare, condannare chi si lamenta e frigna, ma ben provvede a se stesso, ignorando il prossimo: tutto, in fondo, ricollegabile al cinico “mors tua, vita mea”.
Entrambi i modi di dire le calzano a pennello, onorevole compagno Fassino, ed ella è stato davvero abile a nasconderli durante la sua militanza granitica, quasi leninista, “nel partito, con il partito, per il partito”. Tuttavia, caro segaligno Fassino, la capisco. Un’intera vita a correre di qua, di là per la sinistra e i tanti rospi che questa le ha fatto ingoiare, unico, ma inutile rinforzino, per dirla alla conte Mascetti nel film “Amici miei”, alla sua striminzita dieta quotidiana. Una vita a sgolarsi sino alla noia nei comizi in piazza, persino a cantare Bandiera Rossa o Bella ciao, per ritrovarsi oggi che nessuno più ascolta, canta, ma tutti fanno solo marameo.
Una vita intera da impiegatuccio borghesuccio di partito e parlamentare sempre puntuale a timbrare il cartellino, ma, alla fine, né una barca a vela o un’azienda vinicola o un ruolo mediatore, così pare, nel commercio di armi, come, invece, risulta nel pedigree di taluno ex leader del PCI, che a Pisa, ancora oggi, ricordano studente rivoluzionario, poi finito pompiere. Mi solletica, però, il dubbio, proprio da quella busta paga sventolata in mano, che anche lei, compagno onorevole Fassino, come nelle parole di Leo Longanesi “abbia cercato la rivoluzione per trovare solo l’agiatezza”.
Franco D’Emilio