I funerali di stato con rito laico si sono svolti con tanta retorica celebrativa dell’eccezionale “uomo delle istituzioni”, dal cassetto delle redazioni giornalistiche sono usciti finalmente i coccodrilli commemorativi, pronti da tempo in caso di tanta illustre morte, finalmente è uscito di scena un discutibile protagonista del ‘900 italiano.
Nell’attuale inconsistenza e scarsa affidabilità delle istituzioni, dei loro rappresentanti, ne è riprova la costante disaffezione degli italiani dalla partecipazione politica, la scomparsa di Giorgio Napolitano è sopraggiunta davvero a fagiolo perché la ritualità della morte, amplificata oltre misura nel tempo, nello spazio, quasi cinque giorni di commemorazioni, tributo delle persone tra il Senato e la Camera, potesse risultare una boccata d’ossigeno al traballante mondo istituzionale italiano.
Davvero un triste ossimoro il rapporto causa-effetto tra la morte di Napolitano e il conseguente colpo di reni, soprassalto delle nostre claudicanti istituzioni. E, dopo aver visto precipitarsi su tanta scena funeraria diversi capi di stato, oltre al nostro, inevitabilmente compreso, eppoi il Papa e dopo, ancora, ciascuno con il proprio discorsetto di circostanza, Giuliano Amato e Paolo Gentiloni, Gianni Letta e Anna Finocchiaro e, persino, il cardinale Gianfranco Ravasi, come non comprendere la sorpresa di tanti con la legittima domanda “Ma davvero Giorgio Napolitano meritava così tanto?” oppure “Tanto uomo e presidente, com’è che non ce ne siamo accorti?”
Come presidente è stato notaio e anestesista-rianimatore: ha bollato leggi e decreti; ha assecondato, dato fiato a fragili soluzioni di governo, perché fuori dal sentire politico della comunità nazionale.
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica, è stato solo un mediatore, un conciliatore, all’occorrenza pure un intermediario, nulla di più o diverso nella sostanza da quanto faceva nelle vesti di giovane funzionario del Partito Comunista, prima nella federazione di Caserta, poi in quella di Napoli.
Giorgio Napolitano è stato politicamente un grigio, ma ligio conformista ed esecutore oppure un moderato riformista, dunque perfetta espressione di quella mutevole strategia del camaleonte che già Togliatti inseguiva perché il suo PCI, pur monolitico nella sua immagine rivoluzionaria e proletaria, disponesse, invece, sotto sotto, di più anime, ciascuna pronta a fare l’occhiolino ad un’area sociale di riferimento.
Così, il nostro Giorgio da fascista a comunista stalinista, da filosovietico a filoatlantico, da comunista ortodosso a riformista d’ispirazione socialdemocratica, in quest’ultimo caso sotto la definizione paracula di “comunista migliorista”, davvero una genialità di cocktail politico.
Giorgio Napolitano, giovane esponente molto attivo nei Gruppi Universitari Fascisti, è stato una camicia nera, come tante altre, saltata a piè pari nel PCI, individuando nel partito di Togliatti il nuovo protagonista, idoneo e affidabile, per realizzare quella rivoluzione, invano inseguita nelle file fasciste.
Mai un lavoro tutto proprio e diverso, solo la professione politica, quindi esclusivamente il pane della politica, soprattutto tanta pagnotta comunista, mai amara: né con l’approvazione della repressione sovietica dei fatti d’Ungheria del ’56; né con la modesta preoccupazione, ben lungi dalla condanna, per l’invasione russa della Cecoslovacchia nel ’68; né con tanta premeditazione nel glissare sul tema del terrorismo rosso d’ispirazione comunista negli anni ’70 e ’80.
Giorgio Napolitano è stato tutto questo, però, alla sua morte, un colpo di spugna ha cancellato tutto perché egli potesse nella sua commemorazione divenire quel santo, quell’eroe, in fondo quel pretesto per dare una lucidatina alla dignità istituzionale, ormai tanto opaca, della nostra amata Italia.
Quanta ipocrisia istituzionale, quanta mescolanza politica, supina al dovuto omaggio, quanta scena di smemoratezza, confusione di storia e storie personali nell’estremo omaggio a Giorgio Napolitano: persino il Papa in persona, sarebbe bastato un messaggio alla famiglia, ad onorare chi, da sempre, contrario alla visione cattolica della politica.
Adesso, dopo tanto funerale, anche Giorgio Napolitano è entrato nella logica de ‘A livella, la celebre poesia di Totò sulla morte che livella le differenze sociali; chi, invece, resta nelle istituzioni non potrà darsi pace e dovrà, forse, sperare e attendere una nuova morte eccellente.
Franco D’Emilio