La buona politica è come un vino pregevole e schietto, basta un sorso per apprezzarne subito il bouquet e il gusto, tuttavia capita spesso, a Forlì come altrove, che politicanti ovvero mestieranti della difficile arte del governo, al pari di qualche oste furbetto, non solo annacquino il vino della politica, ma addirittura lo diluiscano con acqua torbida, imbevibile.
La metafora dell’attuale politica forlivese è proprio questa: c’è chi, a bella posta, annacqua oltre misura la schiettezza del confronto tra i partiti e, magari, per maggiore sicurezza avvelena pure i pozzi perché nessuno insista a voler soddisfare la propria sete di trasparenza. Le prime due sedute del nuovo Consiglio comunale, di nuovo a guida centrodestra con Zattini sindaco, hanno proprio confermato questo quadro, così poco edificante, di confusione tra luci e ombre, tra acque chiare e acque scure, quasi col fine unico di disaffezionare i forlivesi dalla politica, riconducendo quest’ultima in ambiti sempre più ristretti, esclusivi, insomma nel cerchio di élite, capaci di governare il consenso elettorale, quindi strumentalizzare, manovrare eletti e istituzioni con i perfidi fili del burattinaio nascosto. Eppure, sono mesi e mesi che a Forlì molti sanno, ma fingono di non sapere quanto, ormai, risulta un segreto di Pulcinella.
Sono, infatti, mesi e mesi che il “grande giovane” Marco Di Maio, ex parlamentare e collaudato voltagabbana della sinistra locale, è ufficialmente ritenuto, accreditato quale tessitore di una nuova trama politica cittadina, finalizzata ad aggregare trasversalmente, da destra a sinistra, tutta l’ampia area moderata, sia per condizionare, contenere la sinistra piddina assieme a quella radicale e ambientalista sia per frenare, magari isolare la forza della destra meloniana. Sono, dunque, mesi e mesi che l’ex onorevole, sodale renziano dopo aver tradito il Partito Democratico, si profila, anzi incombe sulla politica forlivese, manovrandone i protagonisti, quasi fossero soltanto tutti miseri pedoni di una sua insolita partita a scacchi.
Il “grande giovane”, l’ho definito così perché, pur se per finalità diverse e con strumenti differenti, il suo sotterraneo gioco di destabilizzare e scomporre la politica forlivese per darle un diverso assetto mi richiama alla mente la medesima tecnica del “grande vecchio” Licio Gelli, anch’essa propedeutica ad un piano di rinascita italiana negli anni ’70-’80. Inevitabile, anche nel metodo politico bisogna distinguere tra capiscuola ed epigoni imitatori! Insomma, il cantiere politico di Di Maio è aperto, già attivo nella nuova giunta ed è un perfetto pot-pourri di ondivaghi cerchiobottisti di destra e sinistra, cattolici e massoni, lobby e lobbisti, infine politicanti con la presunzione di spacciare per genialità il loro pensiero, solitamente nulla o poco più di un’inezia nel sottovuoto spinto.
Per carità, un laboratorio politico, locale o nazionale che sia, arricchisce sempre la cultura del buon governo, ma non si comprende perché debba realizzarsi di nascosto, nella penombra della democrazia e del confronto pubblico: forse, perché sia noto solo a cose fatte, dunque nell’impossibilità di opporvi una giusta contrarietà? Sono mesi e mesi che l’ex onorevole Di Maio non smentisce le voci insistenti su questo suo ruolo di orditore di uno specifico “piano di rinascita politica forlivese”, per questo dubito che replicherà alle parole odierne del consigliere comunale Marco Catalano (FdI), che, stamani, in un’intervista lo ha esplicitamente tirato in ballo, quale autore di sospette interferenze sul centrodestra, molto prossime alla congiura. Marco Di Maio non reagisce, non raccoglie, lascia correre, appena un lieve, enigmatico sorriso sul suo volto di simpatico, imberbe seminarista, tuttavia già tanto curiale e provetto negli scherzi da prete: fidarsi è bene, ma, date retta, non fidarsi è meglio.
Franco D’Emilio