
Però, obtorto collo, lo dobbiamo riconoscere, in campo culturale Forlì almeno un primato lo detiene, davvero incontestabile: quello del “mostrismo seriale” ovvero la ritmica capacità di organizzare ogni anno, ormai sono vent’anni, una mostra artistica, quasi pari ad una ciliegia dietro l’altra. Una successione, una catena ininterrotta di mostre, tutte negli spazi del complesso del S. Domenico, ciascuna un sussulto di bulimia culturale prevedibile, perché fissamente ricorrente e cadenzata, di conseguenza seriale e sempre più lontana da quella straordinarietà, solo tipica dei grandi eventi culturali, capaci di lasciare un’impronta indelebile e duratura.
Da qui il termine mostrismo, già usato dal grande storico dell’arte Federico Zeri, nel quale il suffisso “ismo” denota la caduta di originalità, di valore derivante appunto dal surplus, dall’abuso di una mostra dietro l’altra. Tutte le mostre sono interessanti, ma poche restano uniche, indimenticabili e significative per gli approfondimenti delle conoscenze di un autore o di una corrente artistica o, magari, delle ultime, innovative tecniche restaurative, impiegate preliminarmente all’esposizione di eventuali capolavori.
A Forlì da vent’anni non mancano mai il pretesto, lo spunto, il titolo per mettere su una nuova mostra: ancora non è concluso un evento espositivo che già geniali meningi creative sono a spremersi per inventarsi la prossima mostra. Bastano, poi, la giusta promozione, i giusti canali comunicativi e pubblicitari perché una semplice, seppur apprezzabile, mostrina forlivese, pur se fosse una mostruccia, diventi un evento di ampio clamore.
Le grandi mostre sono momenti di vero artigianato culturale, la cui realizzazione richiede tempo, proprio al fine di creare prodotti unici, spesso senza precedenti e neppure con la possibilità certa di futuri superamenti: diversamente, come accade a Forlì, direbbe lo storico e critico d’arte Philippe Daverio, se ancora tra noi, ci si affida, invece, alla catena produttiva seriale della cosiddetta industrialità culturale, che, rispetto all’artigianalità, è maggiormente finalizzata al relativo consumo, al conseguente business. Di questo passo presto a Forlì non ci sorprenderemmo nemmeno di un’insolita, prossima mostra, titolata “Il gallo nell’arte: dall’uovo alla caveja”.
Le mostre forlivesi del S. Domenico sono l’unico segno di vitalità culturale di una città, da tempo priva di un piano e di un programma della propria cultura; sono il paravento dietro il quale da tempo nascondere l’incuria, il pressapochismo gestionale, la dispersione del patrimonio culturale forlivese, sia esso archivistico o librario oppure storico-artistico; le mostre forlivesi del S. Domenico sono solo un prezioso tappeto Bukhara Beshir sotto il quale celare la polvere dei tanti calcinacci nei quali sono finite le finalità originarie di alcuni progetti, come quello dell’ex Asilo Santarelli.
Le mostre forlivesi sono prevalentemente leva del business culturale della Fondazione Cassa dei Risparmi, business abilmente taroccato da posticcio mecenatismo: in realtà, nessuno, unico e indiscusso dominus, fa niente per nulla, tanto più se apre e chiude i cordoni della borsa. Il beneficio che le mostre hanno apportato alla città di Forlì e’ stato sinora soltanto positivamente fisiologico, ma certamente non di particolare rilievo, sia sotto l’aspetto della ricaduta economica e dei flussi turistici sia sotto il profilo della valorizzazione del patrimonio culturale del territorio. Tolta l’annuale mostra del San Domenico e qualche festivaluccio d’atmosfera, non c’è nessuna altra attrattiva culturale che, al momento, possa giustificare una gitarella a Forlì. Ora come ora, solo un gran deserto e lo chiamano cultura.
Franco D’Emilio