Pare certo che dopo le dovute autorizzazioni da parte degli organi ministeriali e non, preposti alla programmazione della formazione medica e all’organizzazione sanitaria sul territorio nazionale e regionale, già il prossimo anno potrebbe partire a Forlì un corso di laurea in medicina chirurgia nell’ambito del polo universitario romagnolo.
I sindaci della Romagna plaudono tutti all’iniziativa, addirittura qualcuno, come Zattini, primo cittadino di Forlì, ha gioito, s’è commosso per l’arrivo del nuovo corso di laurea, pure contagiando col proprio entusiasmo qualche sua novella assessora che ha salutato il varo della facoltà come un ulteriore passo della città verso il futuro.
Peccato che tale annuncio lasci, però, indifferenti tanti forlivesi, che, diversamente dal loro sindaco, sono, invece, costretti a rattristarsi e restare impassibili dinanzi al disservizio della sanità locale, in particolar modo quella ospedaliera; ancora, peccato che tanti cittadini non riescano a credere che ci si possa avviare verso il futuro quando si è assolutamente incapaci di affrontare il presente, in questo caso quello della tutela della salute pubblica.
A tutt’oggi occorrono 8 ore di attesa in ortopedia all’Ospedale “Morgagni-Pierantoni” per la rimozione di un gesso; sempre nello stesso nosocomio bisogna rassegnarsi a ore di permanenza, anzi di abbandono indecoroso e incivile dentro il pronto soccorso, vittime di un’assurda codificazione della priorità della gravità e della sofferenza!
Potremmo aggiungere anche l’inadeguatezza di certe dichiarate eccellenze come l’Irst di Meldola, Istituto Tumori della Romagna, dove, per triste esperienza personale ed altrui di congiunti gravi colà ricoverati, spesso occorrono ore, trascorse prima che un paziente sfinito trovi adeguata sistemazione e cura.
Esiste, sì, una carenza di medici, ma non è il solo problema della sanità, tanto meno quello strutturale: i medici mancano per la mancata programmazione tra formazione, occupazione e cessazione dell’attività, quindi per l’anacronistica presenza del numero chiuso nell’accesso alle facoltà mediche, strumento che non risponde alla realtà odierna delle necessità sanitarie.
In Emilia Romagna vi sono ben quattro facoltà di medicina e chirurgia con relative scuole di specializzazione (Parma, Modena, Bologna e Ferrara), tutte di grande tradizione, valore ed esperienza, soprattutto già dotate di strutture, ancora ampliabili, che possono provvedere largamente al fabbisogno di personale sul territorio regionale e, persino, in parte, extraregionale: basta sostenerle con maggiori investimenti nella loro autonomia universitaria, sottraendole soprattutto ai lacci, lacciuoli del potere e della clientela politica.
Inoltre, se tanto giovani medici italiani emigrano all’estero per la professione, in particolar modo quella ospedaliera, ciò significa un gap, un divario tra formazione e mercato del lavoro, pubblico e privato.
Medicina a Forlì è un’ottusa scelta di campanilismo che in funzione di interessi localistici elude il problema esposto, illudendo che la soluzione possa riporsi in 75-100 studenti con la spesa iniziale di 33 milioni di euro.
Occorre, invece, puntare ad una filosofia gestionale congiunta della formazione e della professione medica, superando, quindi, l’attuale dicotomia tra università e sanità pubblica.
Se, nel frattempo, a Forlì è bastato un consiglio comunale per dire sì al nuovo corso di laurea in medicina, molti forlivesi devono frugarsi nel fondo delle tasche e decidere se aspettare mesi per un intervento chirurgico ordinario, medio mutualistico o, magari, averlo a tempi rapidi, pagandolo di tasca propria in qualche struttura privata.
Forse, al consiglio comunale è convenuto ancora volgere lo sguardo altrove per fuggire dall’amara verità come la sanità non sia uguale per tutti!