La storia forlivese negli anni bui della Repubblica di Salò annovera episodi tristissimi di persecuzione nazifascista, come la strage dell’ aeroporto nella tarda estate del ’44, il campo di transito dell’albergo Commercio in corso Diaz per gli ebrei avviati alla deportazione o gli arresti e la detenzione sempre di ebrei nelle prigioni della Rocca. Si contarono anche alcuni arresti di rom poi avviati allo sterminio. A fronte di questi episodi terribili, fino a poco tempo fa, non erano stati documentati con sicurezza episodi di solidarietà e salvataggio di perseguitati per motivi razziali nel territorio o ad opera di forlivesi. Solo quest’anno grazie alla testimonianza di un sopravvissuto si è potuto scoprire che ci fu chi con coraggio scelse la strada della solidarietà umana. È stato il caso della famiglia Laufer, ebrea di origine austriaca, che fu nascosta nei locali della canonica della chiesa di San Biagio nel corso del 1944 fino alla liberazione di Forlì da don Pietro Garbin, allora parroco e primo direttore dell’Opera Salesiana forlivese.
È stato proprio un componente della famiglia Laufer, Bruno, allora un bambino di 7 anni, che, a distanza di tanti anni, ha fatto scoprire con la sua testimonianza pubblica quanto accadde allora. Ma un nuovo episodio di solidarietà nei confronti di perseguitati dai nazifascisti riemerge a distanza di settanta anni, in qualche modo collegato alla realtà di Forlì e anche alla parrocchia di San Biagio e all’oratorio San Luigi.
Protagonista di questo ulteriore gesto di solidarietà nei confronti di perseguitati fu Diego Fabbri, drammaturgo nativo di Forlì con un ruolo importante nel panorama culturale del Novecento italiano, cresciuto e formatosi proprio all’oratorio forlivese di San Luigi sia sul piano della fede cristiana sia su quello della passione per il teatro. Da sempre contrario al fascismo, mai aderì alle organizzazioni del regime e già in articoli giovanili sul giornale cattolico locale Il Momento aveva espresso la sua posizione critica. Tale sua impostazione era sottolineata anche da comportamenti espliciti come l’avere indossato provocatoriamente una camicia bianca (e non nera) alla laurea e la ostentazione sul bavero della giacca del distintivo di Azione Cattolica.
L’episodio di solidarietà a cui ci riferiamo avvenne però a Roma dove, nel 1939, Fabbri si era trasferito ed è riportato nel libro, di recentissima pubblicazione, “Perché ci siamo salvati” (Marsilio 2020), di Claudio Bondì e Stefano Piperno. In esso gli autori rievocano le vicende delle rispettive famiglie ebraiche, in particolare durante l’ occupazione tedesca di Roma. Fabbri nella sua ricerca di nuove forme espressive del teatro era entrato in contatto con le personalità più originali e innovative del panorama culturale come il commediografo Aldo De Benedetti, (Roma 1892-1970) ebreo, che divenne suo amico e riferimento culturale.
Fu proprio De Benedetti nel 1943, con lo scatenarsi della caccia nazifascista agli ebrei, a rivolgersi a Fabbri per chiedere un aiuto per il giovane ebreo Franco Piperno che, in quei durissimi mesi, cercava di sfuggire all’arresto e, con documenti falsi e senza lavoro, doveva trovare di che vivere. Fabbri, entrato in contatto con il giovane, in quel momento stava realizzando dei documentari di carattere religioso in Vaticano e, esponendosi a notevoli rischi, lo assunse come collaboratore. Così, nello staff di Diego Fabbri Franco Piperno ebbe copertura e un lavoro, sfuggendo anche ad una retata dei tedeschi che piombarono al teatro Brancaccio in via Merulana, mentre la troupe di Fabbri era impegnata nella realizzazione di un documentario.
Questa storia rivelata dal libro di Bondì e Piperno rivela come Diego Fabbri, forlivese a Roma, fu tra coloro che, in quel tempo terribile, fecero la scelta non facile, ma certamente la più umana, di non voltarsi dall’ altra parte di fronte al bisogno di chi era oggetto di una bestiale persecuzione.
Paolo Poponessi