L’8 luglio 1929 Benito Mussolini in una lettera alla sorella Edwige fa presente che “intanto ho assunto informazioni sulla famiglia X (Mondolfi)…omissis… invito l’Edda a seriamente riflettere, prima di arrivare ad un passo che se fosse compiuto riempirebbe di clamore il mondo, senza contare che il novanta per cento dei matrimoni misti non sono fortunati. Io ne ho molti esempi notevoli sotto gli occhi. …omissis … Andando a Riccione, tu persuaderai a poco a poco la Rachele e l’Edda che io non intendo conoscere i X, e che un matrimonio del genere, vero e proprio scandalo con l’aggravante dell’infelicità, non può farsi e non si farà. Ti abbraccio tuo fratello Benito”.
Il tono è perentorio, quasi rimanda all’ammonimento manzoniano nel primo capitolo de I Promessi Sposi, Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai!”
Infatti, Benito non vuole affatto esaudire il desiderio della figlia Edda che, d’accordo con la madre Rachele, intende presentargli i genitori del giovane ebreo Mondolfi, del quale tanto si è innamorata da considerarsene già fidanzata.
Benito giustifica la sua contrarietà al possibile matrimonio con il giovane ebreo come volontà di assicurare alla figlia la felicità del matrimonio, altrimenti in pericolo proprio con l’unione tra una cattolica ed un ebreo, quindi con un cosiddetto “matrimonio misto”.
Soprattutto il Duce si preoccupa che un simile matrimonio possa nuocere alla propria figura e al ruolo del Fascismo: nel febbraio ’29 Mussolini ha chiuso i Patti Lateranensi con la Santa Sede, quindi a soluzione della Questione Romana e a pacificazione del rapporto religioso e politico con i cattolici, riconoscendo, fra l’altro, la religione cattolica “sola religione dello Stato”. Le altre confessioni, compresa quella ebraica, sono solo ammesse, quasi sul filo di una benevola tolleranza, e devono sottostare a controlli e limiti particolari.
Dunque, l’Uomo della Provvidenza non può compromettere il suo volto di difensore della Chiesa, ma, soprattutto, non può compromettere quella propaganda antisemita, iniziata il 29 novembre del ’28, quando su Il Popolo di Roma è apparso un articolo, titolato Religione o Nazione, dai più attribuito proprio al Duce: argomento di fondo la doppia lealtà degli ebrei, sospettati di essere sì fedeli all’Italia, ma anche all’idea sionista di una loro nazione fuori dai nostri confini, tema questo che sarà ancora più amplificato nel biennio ’37-’38, in preparazione del Manifesto della Razza e dei Provvedimenti a difesa della Razza.
Tra il ’28 e il ’29 si registrano, quindi, posizioni evidenti di antisemitismo, espressione di quel razzismo apertamente dichiarato da Mussolini sia nella costituzione dei Fasci di Combattimento nel’19 a Milano sia nella fondazione del Partito Nazionale Fascista nel ’21 a Roma. Né dobbiamo dimenticare come il Duce, ormai difensore crociato della Chiesa, non esiti, sempre nella primavera del ’29, subito dopo i Patti Lateranensi, a liberarsi dalla lunga, ma ormai inopportuna relazione con l’intellettuale ebrea Margherita Sarfatti che tanto ha affinato la sua grossolana cultura.
Mussolini conferma quello spirito antisemita, appreso dal padre socialista Alessandro, protagonista pure di un memorabile, acceso comizio nella piazza di Predappio contro i deicidi ebrei; ancora, Benito ribadisce quel suo antisemitismo, già espresso nel 1908, quale militante socialista, in articolo su Il Pensiero Romagnolo, fra l’altro contro un suo stesso compagno di partito, il parlamentare ebreo Claudio Treves, giunto a Forlì per una conferenza. Sono le premesse della grande tragedia della persecuzione antiebraica ad opera del regime fascista.
Franco D’Emilio