Alla fine, un po’ per irresistibile curiosità, lo confesso, un po’ per l’onestà di dire la mia solo dopo aver sempre constatato di persona, ho atteso il buio di una gelida sera forlivese per raggiungere piazza Saffi e vedere dal vivo tanta decantata magia di luci natalizie, addirittura celebrata da prestigiose testate giornalistiche nazionali.
Che dire, la piazza era davvero bella, scenografica ed emozionante, perché no wunderbar, fantastica, per dirla con esaltante entusiasmo germanico: ho girato su me stesso per rimirare tanta scena, sentendomi quasi contagiato da una variante, termine ora di grande attualità, della Sindrome di Stendhal, certo in una forma minore.
Un contagio, però, breve, solo leggermente sintomatico, visto che, già sulla via del ritorno a casa, non mi sentivo preda di quella forte esperienza emozionale, solitamente suscitata dalla bellezza dell’arte, della cultura, anche del paesaggio sino a configurare, appunto, la sindrome vissuta dallo scrittore francese Stendhal nella visita della basilica fiorentina di S. Croce.
In fondo, avevo solo ammirato la bellezza temporanea, effimera di tante luminarie ed effetti scenici, destinata a celebrare il periodo natalizio, ovvero, passate le feste, riposte le palle d’addobbo, certo non quelle personali, perennemente rotanti, sarebbero tornate le solite luci ed ombre di una Forlì, incerta tra presente e futuro, anche per la dura prova dell’epidemia covid, ormai in atto da due anni.
Insomma, avevo solo ammirato il luna park della “Forlì che brilla” a Natale e torna opaca e scialba per il resto dell’anno, appena una botta di vita nella cagnara estiva dei “mercoledì del cuore”: non è tutto oro quel che luce a Forlì, ancora di più se solo a Natale, lasciando, poi, spazio alla patacca dell’ottone nei mesi a seguire.
Questa piazza sfavillante, da giorni scenario e palcoscenico di foto e selfie di numerosi “piacioni” e ballerine della politica locale, rischia di rappresentare una Forlì che non esiste, quindi una bufala, anzi pure uno specchietto per le allodole e, in conclusione, per dirla con le parole del Pinocchio di Collodi, un’immagine da paese “acchiappa-citrulli”.
Eppure, non demorde ed impavida insiste con luminose idee Andrea Cintorino, assessore al centro storico dell’illuminato Comune di Forlì, che in un’intervista di pochi giorni fa, riferendosi alla “Forlì che brilla” ha dichiarato come “Il risultato finale è vincente”, quasi un brand che “ci accompagnerà da qui alla fine del nostro mandato”.
Sic et simpliciter, in quali mani mai siamo finiti!
Ma se il brand è il marchio, il segno distintivo di un’azienda, in questo caso il Comune di Forlì, per dare identità alla propria attività, offerta, anche differenziandola da quella dei concorrenti, dunque degli altri comuni italiani, e, se, ancora, solo in modo continuativo e costante, quindi non saltuario e periodico, il brand serve a dare notorietà, a muovere l’immagine dell’azienda comunale, consolidando la credibilità e il valore dei suoi servizi, allora come può tanto illuminante e illuminato assessore pensare che la natalizia “Forlì che brilla” possa costituire un brand di risultato e di successo, continuo nel tempo, per la nostra città?
Non vediamo ancora la luce in fondo alla via crucis del covid e possiamo solo sperare di cantare presto con Caparezza “Fuori dal tunnel”, eppure l’assessore Cintorino vede la luce di una visione che non c’è, confonde fischi per fiaschi, volge altrove lo sguardo, lontano da un centro storico sempre più vuoto e abbandonato, sempre più cartellonato da affittasi o vendesi o cessata attività, sempre più spazio di fannulloni nostrani e d’altre terre, sempre più muto perché rassegnato. Forse, il nostro assessore è una visionaria mistica, cerca la luce divina della politica, ma inciampa nel bluff propagandistico di una Forlì inesistente. Ecco, la “Forlì che brilla” è come un treno natalizio dei sogni sul quale tutti possono salire, destinazione, però, il 7 gennaio, a feste finite, la “Forlì che si spenge”.
Politicamente non considero la “Forlì che brilla” né da destra nè da sinistra secondo l’accezione attuale di queste due denominazioni: sono cresciuto nella tradizione e nell’attualità del liberalsocialismo, a Firenze con mio nonno e mio padre ho frequentato il Circolo “Fratelli Rosselli”, tutto questo solo per significare quanto il mio imprinting culturale e politico sia poco conciliabile con la luminosità ingannevole dell’apparenza. La sera della mia andata in piazza Saffi, dinanzi allo spettacolo fantasmagorico delle luminarie una signora, accompagnata da un codazzo petulante di amiche, si slanciava oltre misura in una battuta davvero azzardata: stasera Forlì è come Parigi, come la Ville Lumière!
Considerando che Parigi è detta Ville Lumière per due ragioni, quella pratica di essere stata una delle prime grandi città europee a dotarsi di illuminazione pubblica a gas nelle proprie vie e, poi, quella ideale di essere considerata, sin dai tempi dell’Illuminismo, grande faro intellettuale e di cultura nel mondo, mi chiedo dove a Forlì sia riposta l’utilità pubblica permanente delle luminarie natalizie e dove si trovino tanti fini lumi intellettuali fuori dal dominante e piatto conformismo culturale: non scherziamo, nessuna Ville Lumière forlivese. Date retta, amici lettori, buon anno nuovo! Ne abbiamo davvero bisogno!
Franco D’Emilio