Dopo la ricorrenza internazionale del 27 gennaio, Giornata della Memoria per le vittime dell’Olocausto, sopraggiunge il 10 febbraio il Giorno del Ricordo, nostra solennità civile nazionale, dunque solo italiana, per onorare le vittime delle foibe e l’emigrazione forzata dei cittadini, sempre di nazionalità e lingua italiana, dai territori giuliano-dalmati, occupati dalle truppe jugoslave comuniste del comandante Tito.
Due commemorazioni di diversa ampiezza, ma segnate dallo stesso orrore e dolore: nel caso dei nostri connazionali giuliano-dalmati la tragedia di essere uccisi o costretti all’esodo, vittime, così, di una vera e propria pulizia etnica, poco dissimile da una persecuzione razziale e, fra l’altro, ipocritamente sospinta da una generalizzata, infondata, solo pretestuosa accusa a tutti gli italiani giuliano-dalmati di grave complicità con la dittatura fascista. Insomma, il Giorno del Ricordo del 10 febbraio richiama storicamente il pesante dramma italiano, maturato nella difficile vicenda del nostro confine orientale nel secondo dopoguerra tra il 1945 e il 1960.
Circa 350.000 i profughi istriani e dalmati di nazionalità italiana, costretti all’esodo forzato e sempre accolti dall’ostilità della nostra sinistra politica, perché tanto stupidamente da essa considerati filofascisti, traditori, persino invasori.
Ecco perché il Giorno del Ricordo serve anche al fine che non si perda memoria come nei porti di Venezia, Ancona e Bari i profughi trovassero i comunisti ad accoglierli con fischi, sputi e insulti.
Come, ancora, nelle stazioni di Firenze, Bologna, Milano esagitati ferrovieri e militanti comunisti cercassero di ostacolare il transito o la sosta dei treni dei profughi, addirittura rovesciando sui binari, come accadde il 18 febbraio 1947 nel capoluogo emiliano, il latte predisposto dalla Croce Rossa per le donne e, soprattutto, i bambini in arrivo. Come, sin dall’inizio, Palmiro Togliatti, segretario del PCI sia stato imbroglione e cinico sulla questione giuliano-dalmata, indimenticabile il suo intervento del 30 novembre 1946 su L’Unità, quotidiano del suo partito: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già scarsi”.
Falso come l’ottone il compagno Togliatti nella sua equiparazione dei profughi giuliano-dalmati ad un popolo di gerarchi, profittatori e briganti neri, arricchitisi illecitamente col Fascismo, e, nonostante questo, pure con l’intenzione di pretendere il pane della solidarietà! I giornali di sinistra all’epoca del grande esodo trattano i profughi come fannulloni e parassiti in cerca solo di assistenzialismo, proprio l’opposto di quanto, invece, alla fine di una lunga inchiesta sulle condizioni di vita degli stessi profughi, scriverà Indro Montanelli sul Corriere della Sera del 28 novembre 1954 ovvero “Ridotti a vivere in dieci o dodici in una stanza, riescono a farlo in un ordine e pulizia esemplari, cercando lavoro, rifiutando elemosine e senza mai lamentarsi… Che ne faremo di questi esuli?”
La verità amara, incontestabile è che verso l’esodo giuliano-dalmata tutta la sinistra italiana, per scelta ideologica e politica, non volle manifestare alcuna “accoglienza”, la stessa con la quale, adesso, pratica invece quotidiani gargarismi a favore dell’immigrazione clandestina.
La sinistra italiana manifestò solo rabbia, odio contro quei “clandestini”, così i profughi chiamati sulle pagine dell’Unità, colpevoli di essere fuggiti dal paradiso comunista.
Clandestini, dunque, i profughi giuliano-dalmati in Italia, falsamente accusati di essere tutti di sentimenti fascisti, quindi da ostacolare per evitarne l’integrazione nella “sana e, ora, libera Italia lavoratrice”, così in un discorso del 1947 il ventiduenne Giorgio Napolitano, solo da tre anni promettente militante del PCI.
L’ordine togliattiano a tutti gli amministratori comunisti fu implacabile: attenersi alle direttive del partito, relativamente alla “gestione” dei profughi, eventualmente presenti sui loro territori. Gli ordini del capo non si potevano discutere e, ancora dopo i fatti d’Ungheria, sarebbero rimasti indiscutibili perché espressione del famigerato “centralismo democratico”.
A riscontro di tutto questo basta cercare qualche profugo, ancora testimone dell’esodo forzato, magari in un piccolo Comune di immediata e lunga amministrazione comunista negli anni del secondo dopoguerra: è il caso del Comune di Meldola in provincia di Forlì, dal ‘45 al ‘60, quindi per tutto il periodo dell’esodo giuliano-dalmata, ininterrottamente in mano a sindaci comunisti, dopo un passato di ferrea, totale adesione al Fascismo, come risulta da tanta documentazione archivistica.
Bruno Stipcevich, nato a Zara il 1° marzo 1939, profugo a Meldola nel gennaio ’58, ospitato dalla generosità di una zia, già meldolese, che lo aveva sottratto alla pena del miserabile campo profughi di Laterina (AR), ancora allarga le braccia in tanta sconsolata amarezza, rievocando i primi tempi a Meldola della sua famiglia senza una casa, un lavoro, solo porte sbattute in faccia per la colpa, sua e familiare, di essere profughi sospettati di collusione con il Fascismo: questo, infatti, il sospetto sempre nelle parole, rimaste indelebili nella memoria di Bruno, più volte dalla bocca di addetti del Comune di Meldola sotto la sindacatura della compagna Ariella Farneti.
“Alla fine, forse stufi delle mie richieste di aiuto – ricorda ancora Bruno – mi promettevano di fare qualcosa, ma nulla di più! Nessuno considerava il mio attestato di qualifica professionale, nessuno che mai mi mettesse alla prova!”
Persino don Vitaliano Zanetti, parroco di San Nicolò, forse dimentico dell’insegnamento evangelico “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” bloccava Bruno, richiamandolo alla sua condizione di profugo che veniva molto, molto dopo le benemerenze degli ex partigiani, la precedenza dei compagni e, comunque, dei nuovi vincitori. Restava, in tal modo, ignorato l’appello della Prefettura di Forlì che, al pari di tutti gli uffici prefettizi e su disposizione del Ministero degli interni, chiedeva ai comuni un “sostegno umanitario ai profughi”.
Eppure, nel frattempo, Bruno non rifiutava nessun lavoro occasionale, pure malpagato, e il 6 settembre 1958 il Comune di Meldola registrava pure un atto di assenso del padre Vincenzo perché egli, appena diciannovenne, potesse recarsi in Svizzera con “espatrio per lavoro”.
Babbo Vincenzo stesso non aveva esitato ad emigrare in Francia per un lavoro stagionale di sei mesi nella raccolta delle barbabietole. Poi, finalmente, per intercessione di un’anima buona, Giuseppe Ravarino, direttore della forlivese Orsi Mangelli, qui Bruno deglutisce a stento la sua commossa, duratura riconoscenza, l’assunzione nel ‘59 in quella stessa fabbrica con le mansioni di operaio qualificato del reparto “stiro del nylon”, attività che il nostro ha svolto con consapevole impegno.
Il lavoro finalmente cambiò la vita di Bruno: una casa propria, in affitto a Busecchio alle porte di Forlì, persino una motocicletta, Morini 175 settebello sprint, per recarsi a lavorare all’Orsi Mangelli, ma, soprattutto, la piena dignità personale di sentirsi, a ragione, finalmente un italiano lavoratore.
In fondo, Bruno Stipcevich ha pagato il prezzo dell’accusa infondata di complicità col Fascismo, addebitata a tutta la generalità dei profughi. È stato l’addebito di una colpa con la quale il vincitore antifascista, in particolar modo quello comunista, voleva epurare la società dal male assoluto fascista in cambio di un’adesione supina, acritica al proprio disegno politico, per fortuna mai realizzato.
Bruno avrebbe potuto soddisfare la richiesta, esplicitamente fattagli, di prendere la tessera del PCI, così agevolmente avrebbe superato ogni difficoltà, ma preferì non chinare la testa e il suo orgoglio di incolpevole profugo dalmata, solo vittima della storia.
Anche con singoli casi personali, come quello di Bruno, la sinistra, particolarmente il PCI, ha voluto mantenere un clima da guerra civile, contrappositiva tra il bene antifascista, proiettato verso l’illusione del socialismo reale, e il male fascista, nemico sempre in agguato: è questa, ancora oggi tanto assurdamente, la ragione esistenziale di istrioniche associazioni di sopravvivenza partigiana.
Il proposito odierno, quindi, di rendere dura la vita anche a soli presunti fascisti costituisce quasi una mission della sinistra: nulla è cambiato, in fondo, da quando nel 1953, sempre a Meldola, sindaco Antonio Altini, anch’egli comunista, l’allora ventunenne Virgilio Gugnoni, senza speranza in cerca di occupazione sia perché figlio di un netturbino ex fascista e sia perché, egli stesso, contrario a diventare comunista, scelse di non macchiare il suo affetto filiale e preferì emigrare in Svizzera, dove per 15 anni, sino al 1968, lavorò duramente come muratore e gruista.
In Comuni, come Meldola, nel Giorno del Ricordo la memoria della tragedia giuliano-dalmata non deve essere corta, limitandosi al solo momento commemorativo delle vittime delle foibe e della sventura dei profughi, ma deve pure andare, in modo critico e riflessivo, alle difficoltà, agli ostacoli, al malanimo politico che i governi locali, soprattutto per responsabilità comunista, opposero all’integrazione di nostri connazionali, costretti all’esodo dalla sventura della storia.
Sinora, a Meldola e in altri Comuni la commemorazione è risultata solo superficiale, incompleta, pavida di raccontare tutta la verità sulle responsabilità della mancata accoglienza dei profughi giuliano-dalmati. Non dimentichiamoci che la Legge 30 marzo 2004, n. 92, istitutiva della solennità civile nazionale del Giorno del Ricordo, vide, ancora, la contrarietà di voto dei sopravvissuti comunisti e dell’estrema sinistra, ma, ancora di più, non ignoriamo come ogni anno, nella ricorrenza del 10 febbraio, da parte di settori della sinistra si levino voci riduzioniste o revisioniste o, addirittura, negazioniste della tragedia giuliano-dalmata. La sinistra non può, a Meldola come altrove, pretendere di avere conti aperti col Fascismo e, invece, non fare i conti con se stessa, con il suo passato.
Franco D’Emilio