Il 12 settembre 2023 avrebbe compiuto 100 anni. Era un Internato Militare Italiano (IMI) di Forlì. Il suo nome era Delmiro Cortini e viveva a Villa Pianta di Forlì. Ancora oggi a distanza di tanto tempo la famiglia lo ricorda con rimpianto e affetto. Quella che segue è la testimonianza della nipote Marina Cortini, che ha ricostruito l’ultimo periodo della vita di Delmiro, nonché le angosce dei familiari che per lungo tempo non ebbero notizie di lui. Mentre nella seconda parte dell’articolo Paola Bezzi, cognata di Marina nonché ricercatrice storica, contestualizza quanto avvenne ai soldati italiani nei giorni successivi alla firma dell’armistizio di Cassibile. La vicenda parte descrivendo l’afflizione della madre di Delmiro nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, strazio che continuò per mesi e mesi anche dopo la fine della guerra. Diversi soldati tornavano e lei continuava ad attendere vanamente il figlio sul cancello di casa.
L’angoscia della madre di Delmiro Cortini
«C’è davanti al cancello di casa una piccola donna… È vestita di nero e scruta in lontananza la “fine” della strada con i suoi occhi azzurri, colmi d’acqua» esordisce nel suo racconto Marina Cortini, che prosegue: «Si stropiccia le mani sul grembiale… si aggiusta una ciocca di bianchi capelli, usciti dal fazzoletto nero… Tutti i giorni si ripete la stessa scena, d’attesa… Tornerà? Tornerà Delmiro, chiamato in famiglia Solideo, quel figlio tanto amato e tanto sfortunato? Non si dà pace Ernesta…Perché non torna? Il dolore è una montagna rocciosa che spezza il respiro… Non era sufficiente aver perso un’altra figlia, Olga, di soli 7 anni a causa della “spagnola”?? I ricordi si affollano nella sua mente e dai suoi occhi traspaiono momenti di vita passata, a volte anche sereni…come in ogni famiglia…».
“Era un ragazzo sorridente, pronto allo scherzo. È stato un buon figlio. Siamo sempre stati orgogliosi di lui. È stato un campioncino nella lotta greco-romana. Perché non torna?? Perché si deve pagare un prezzo così enorme ed assurdo??”, avrà sicuramente pensato la madre in cuor suo”.
«Delmiro ha tenuto fede all’ideale di libertà contro la tirannia» sono ancora parole di Marina Cortini «contro l’assurdità di una guerra. Quell’8 settembre del 1943 sicuramente avrà sperato che la guerra fosse finita, che sarebbe potuto tornare a casa. A casa!! Invece ha avuto inizio il periodo più difficile della sua vita: essere fatto prigioniero perché italiano e “traditore”. I nazifascisti avranno fatto pressione anche su di lui, ma, forte dei suoi ideali di giustizia e di libertà, ha scelto di non diventare veramente traditore. Non avrebbe potuto mai far parte dei ‘repubblichini’, mai! E…ha pagato con la vita la sua forza d’animo».
«Io, nipote di quel giovane zio mai conosciuto» continua Marina «l’ho sentito dentro di me, l’avevo davanti ogni giorno, ogni notte, perché fino all’adolescenza ho dormito nella stessa camera di nonna Ernesta, da quando era morto anche il nonno Giuseppe. Appesi alla parete c’erano due “quadri”: le fotografie dei loro figli morti. Ho respirato il dolore e la morte che trasudavano da quelle pareti e ho immaginato tante volte gli ultimi giorni di vita dello zio…
Dai racconti di mia mamma Rina, che oggi ha 95 anni, so che Delmiro aveva sempre desiderato entrare in Marina e lo dimostrano le foto che lo ritraggono con la divisa da marinaio e il foglio matricolare. Ho così scoperto che, con ogni probabilità, mio padre Gino, fratello di Delmiro, ha scelto per me il nome Marina e per mio fratello secondogenito il nome Delmiro. Abbiamo ritrovato diverse lettere inviate da La Spezia, dove era di stanza come marò anche quel famoso 8 settembre del 19443, quando l’esercito italiano rimase senza ordini! C’è da chiedersi che fine abbia fatto il nostro esercito!? Dal racconto di mia nonna Ernesta ho saputo che Delmiro era salito sul treno per raggiungere Forlì, la sua casa, ma a Bologna fu ‘sequestrato’ dai soldati tedeschi, che avevano già invaso l’Italia, e fu portato in Germania.
La nonna mi disse che alla “frontiera” lanciò un biglietto per fare sapere ai genitori e al fratello che lo portavano lontano. Una ragazza raccolse lo scritto e fece sapere il contenuto ai miei nonni. Chissà cosa e come avrà vissuto quei momenti mio zio? Siamo certi che era un IMI, un Internato Militare Italiano: infatti si era rifiutato di entrare nella cosiddetta Repubblica di Salò; inoltre non venne considerato prigioniero di guerra per cui non ebbe neppure l’assistenza della Croce Rossa Italiana. Un giorno mi è stato raccontato che il parroco di Santa Maria della Pianta si recò dai miei nonni Giuseppe ed Ernesta per dare la notizia della morte certa del loro figlio.
Alla stazione di Forlì, su un treno che passava, c’erano dei giovani che gridarono il nome di mio zio, dicendo poi che era deceduto a causa dell’esplosione di una bomba, proprio davanti l’ingresso di un rifugio antiaereo. Mia madre ha sempre detto che Delmiro lasciò passare una donna per cui lui rimase sepolto “vivo” nella sabbia di quel lager: è morto infatti per soffocamento». «Era il 15 marzo del 1945» conclude Marina Cortini «non aveva ancora 22 anni e la guerra sarebbe finita a breve. Solo nel gennaio 2021, su richiesta di mio fratello Marco, mio zio ha ricevuto la Medaglia d’Onore per la fedeltà dimostrata nei confronti della patria e per gli alti valori ideali espressi dalla sua scelta».
L’altra Resistenza
In base alle ricerche storiche effettuate da Paola Bezzi la storia di Delmiro Cortini (familiarmente detto Solideo) si ascrive, come ricordano anche Salvatore Gioiello e Lieto Zambelli nel libro “Amarcord, piò ‘d quarant’én fa…”, edito dalla Cassa Rurale e Artigiana di Forlì nel 1995, all’interno dell’odissea vissuta da 236 militari forlivesi, deportati nei lager nazisti dopo la caduta del governo Mussolini e il cambiamento di fronte dell’Italia, militari che non tornarono più a casa. Tra essi egli fu l’unico marò, come si apprende dal volume di Rolando Romanzi e Gualtiero Zattoni “I cittadini delle province di Forlì-Cesena e Rimini caduti nei lager nazisti e in tutte le prigionie”, A.N.E.I, Forlì 2018.
«Era di stanza prima a Venezia, poi a La Spezia – scrive Paola Bezzi – ma Sachsenhausen, a nord di Berlino, fu la sua ultima destinazione. Come rimarcano gli studi di Claudio Cassetti, Iacopo Buonaguidi e Francesco Bertolucci, confluiti nel libro “Italiani a Sachsenhausen. La deportazione nel lager della capitale del terzo Reich”, Panozzo Editore, 2022, in quel Konzentrationslager, a parte grosse e sanguinose eccezioni come la battaglia di Rodi o la difesa di Roma, il disarmo e la cattura dei soldati si svolse senza grandi resistenze. Gli ufficiali non avevano ordini precisi e non sapevano cosa fare».
«Gran parte dei soldati pensava che la guerra fosse finita – aggiunge Paola Bezzi – o stesse per terminare, per cui decise di rompere i ranghi e di tornare a casa. Delmiro, dopo l’8 settembre, prese il treno per raggiungere Forlì e festeggiare il compimento dei 20 anni in famiglia, il 12 settembre. “In quanto a venire a casa”, scrisse Delmiro Cortini ai genitori il 1° agosto 1943, pochi giorni dopo la destituzione di Benito Mussolini, “con permessi o licenza ci si può mettere il cuore in pace… sarà ben difficile che io possa venire tanto più che ora le licenze e i permessi sono chiusi…”.
Lasciata quindi in tutta fretta La Spezia, fu catturato lungo la strada del ritorno e posto su un altro treno, senza sapere nulla del suo imminente futuro. Come scritto nel libro “Italiani a Sachsenhausen”, “Molti soldati non avevano idea di dove li avrebbero portati i treni sui quali venivano caricati. Spesso già al momento della cattura, si pose ai soldati e ufficiali l’alternativa tra essere portati come prigionieri in Germania oppure combattere con i nazisti…”.
Secondo Claudio Sommaruga, ex internato militare e ricercatore storico per ANRP e Guisco, su un milione di soldati catturati 197.000 scelsero di combattere per i nazifascisti, mentre circa 650.000 rifiutarono e furono deportati nei lager. Di essi almeno 25.000 morirono.
Una parte, circa 3.000, fu portata nei campi delle SS, mentre la maggioranza fu trasferita negli Stalag, i campi satellite gestiti dalla Wehrmacht: essi entrarono a far parte della mastodontica macchina di sfruttamento tedesca, prima come IMI, poi, dall’agosto 1944 col consenso di Mussolini, come “lavoratori civili”, diventando gli “schiavi” di Hitler».
«Nel mese di settembre i soldati italiani erano contesi tra le forze tedesche – ricorda Paola Bezzi – che, in base al piano Fall Achse, avevano occupato il territorio italiano. Il 18 settembre partì per la Germania il primo trasporto di 500 prigionieri prelevati dal carcere militare di Pizzighettone, in provincia di Cremona; del trasporto e della loro distribuzione si sa poco. Il 19 settembre almeno 1.790 militari italiani furono inviati nei lager delle SS: in maggioranza erano detenuti del carcere militare di Peschiera e giunsero a Dachau. Almeno un centinaio di essi fu trasferita a Sachsenhausen tra il novembre e il dicembre del 1943. Per questi militari non venne neppure usata la denominazione IMI, ma più semplicemente IT (italiano) o POL (politico) o più semplicemente “Schutz” (detenzione protettiva). Erano tutti operai specializzati. Come Delmiro, che era “tubista”, idraulico. Chi fu inviato da Dachau a Sachsenhausen divenne spesso BV (criminale di professione), all’interno di una serie di lager che fino al 1944 erano esclusivamente maschili. Delmiro, negli ultimi giorni della sua vita, lavorava nello Stammlager 952d, dove i prigionieri erano adoperati in un’industria della vicina città di Oranienburg, la Markische Metallbau AG, ditta al servizio dell’aviazione tedesca. In una giornata lavorativa di 11-12 ore la fame era il pensiero dominante. E il lager diventava il luogo eletto per l’annientamento del nemico.
Come ci ricorda Roberta Ravaioli, che ha dedicato tanti anni della sua vita al recupero della memoria degli IMI forlivesi, il dispaccio ufficiale del generale delle SS Oswald Pohl dettava “le linee di impiego del lavoro dei deportati: nella lettera circolare del 30 aprile 1942 si ordinava di sfruttare al massimo e senza alcun limite le loro capacità produttive” (Roberta Ravaioli, La Germania nazista e l’internamento delle forze militari italiane, pag.71, a cura di Daniele Vaienti, Maurizio Balestra, Claudio Riva, Il gran rifiuto. Storia e storie dei militari italiani internati nei lager dopo l’8 settembre 1943, Stilgraf, Cesena, 2015). E Sachsenhausen era un campo delle SS. Esso è meno conosciuto rispetto a Dachau, Mauthausen o Auschwitz, forse perché rispetto ai primi due rimase oltre la “cortina di ferro”, nella Germania orientale. Ma in esso si perpetrò “l’omicidio di massa di 10mila prigionieri sovietici”, tra i quali il figlio maggiore di Stalin, Jakov, che, rinnegato dal dittatore, perì contro il filo elettrificato il 14 aprile 1943. Inoltre, Sachsenhausen non ha avuto alcun Primo Levi che lo abbia raccontato, per cui la storia di Delmiro Cortini può essere utile anche per conoscere quello che Heinz Brandt, lì deportato, definì un “inferno”».
«Da quell’inferno Delmiro non è mai tornato – conclude Paola Bezzi – né vivo né morto. Perì insieme ad altri 9 italiani nell’attacco aereo del 15 marzo 1943 e fu sepolto ad Oranienburg insieme ad altri 36 connazionali. Il luogo della sua tumulazione è ancora sconosciuto: forse i suoi resti sono in una fossa comune del cimitero cittadino, mentre subito dopo la morte fu inumato nel cimitero cattolico, con una croce e la sua piastrina di riconoscimento. Ma la guerra era ancora in corso, il cimitero cattolico fu gravemente danneggiato e i corpi furono traslati nei giorni successivi. Rimane intatto il valore della sua scelta.
Alessandro Ferioli nel saggio “Per una bibliografia ragionata sugli Internati Militari Italiani” scrive: “La deportazione e il conseguente internamento dei militari italiani nei lager del Terzo Reich, all’indomani dell’8 settembre 1943, sono sempre stati poco studiati e poco valorizzati rispetto a quello che fu il loro peso sostanziale e morale nell’ambito della Resistenza, specialmente se si considera che quel “NO” opposto al nazifascismo dalla grandissima maggioranza dei nostri soldati valse all’epoca come un vero e proprio referendum popolare spontaneo contro la dittatura”».
Gabriele Zelli