Come spesso mi accade in serate di grande banalità televisiva, anche ieri ho cercato conforto in un capolavoro cinematografico e per l’ennesima volta è toccato ad Amarcord, sempre un immenso, benefico momento di arte e poesia. Scelta, fra l’altro, in armonia col prossimo 31 ottobre, data dei trent’anni dalla scomparsa nel 1993 di Fellini, ancora oggi il cineasta italiano più premiato per i suoi capolavori, sintesi unica di satira, malinconia ed un inconfondibile tocco onirico. Certo, Rimini si identifica tanto con la figura di Federico Fellini sia perché città natale del grande regista sia perché luogo di riferimento narrativo di alcuni dei film felliniani più celebri, tra i quali, appunto, Amarcord, premio Oscar nel 1975, opera di particolare rilievo per la trama, fortemente autobiografica dell’autore.
Tuttavia, tante testimonianze confermano, tuttora, come quello tra Fellini e Rimini sia stato un rapporto di amore e odio, soprattutto per l’indole sbruffona dei riminesi che il regista, in più occasioni, non esitò a definire tipi “pataca”, con un termine dialettale romagnolo che bene ne esemplifica, appunto, il carattere spaccone. Addirittura, in un’intervista del 2020 Bruno Zanin, indimenticabile interprete del giovane Titta Benzi in Amarcord, dichiarava come solo dopo la consacrazione al successo di Fellini “i riminesi ne hanno sfruttato la fama, spesso vantandosi di conoscerlo”, ma alla fine rivelandosi capaci solo a chiacchiere di omaggiarlo: a tal proposito, si pensi alla vicenda un po’ grottesca, quasi un “bidone”, della casetta sul porto canale riminese che tutti volevano donare al maestro, ma, alla fine, nessuno tirando fuori il becco di un quattrino.
Rimini è stata per Federico sempre ed esclusivamente il richiamo della propria memoria, dei propri ricordi, poi, però, elaborati altrove, in diverse località o in vari studi cinematografici, tra nostalgia e dimensione onirica: questo spiega perché Rimini sia entrata sì nel mito cinematografico felliniano, ma senza mai averne ospitato un set, senza che il nostro regista vi abbia mai girato neppure un metro di pellicola. La Rimini de I vitelloni, di Amarcord, tanto per citare le due opere di maggior sfondo autobiografico, resta così un luogo immaginario, collocato in una dimensione fantastica, perché no metafisica oltre la conoscenza comune: esclusivamente con una sceneggiatura fuori da ogni connotazione della realtà Fellini è riuscito, così, a ricomporre nel suo animo il personale contrasto amore-odio verso la città natia, rievocando liberamente quest’ultima solo attraverso figure e circostanze, angolazioni e prospettive, emergenti dalla propria introspezione.
Esiste, allora, una Rimini tutta felliniana, trasfigurazione magica, immaginaria della città reale, che Federico narra tra lirismo e prosaica critica, anche sconfinante in momenti di manifesta satira. È soprattutto a Roma, dove si è trasferito dal 1939, appena diciannovenne, che Fellini trasfigura la città natia in una Rimini d’atmosfera, ormai irreale, nella quale rivivere, come in un sogno, la memoria della sua infanzia, della sua giovinezza.
Federico s’inventa, così, la sceneggiatura riminese de I vitelloni e di Amarcord con le strade, le piazze, le case di altre città, convinto che il pensiero malinconico, l’emozione, la suggestione della sua Rimini giovanile non necessitino affatto di essere fissati nella fisicità del luogo originale, ma solo di rivivere appieno nel suo sentire, tanto particolare, di riminese, ormai cittadino altrove.
Così, lontano da Rimini, tra la fine del ’52 e l’inizio del ’53 le riprese de I vitelloni ebbero i loro “ciak si gira” a Viterbo, Ostia, Roma e Firenze, in quest’ultima città, all’interno del Teatro Goldoni, solo la scena della festa di carnevale: dunque, a Viterbo rivivono le strade e le piazze riminesi; ad Ostia in via Lucio Coilio, dove ora compare una pizzeria, poco distante dal celebre Bar Sisto, fuma, pigramente seduto al sole, l’indisponente vitellone Alberto Sordi; in diversi luoghi di Roma sono ambientati interni ed esterni del film, tra i quali la celebre scena dell’insultante gesto dell’ombrello di Sordi ai lavoratori, appunto girata sull’allora costruendo raccordo anulare nei pressi di via della Magliana. Di Rimini neanche uno scorcio, nessun richiamo diretto.
Altrettanto lontano da Rimini, nel 1973 finiscono le riprese di Amarcord, sicuramente il film più autobiografico di Fellini, interamente girato a Roma negli Studi di Cinecittà in via Tuscolana 1055, fatta eccezione di cinque scene: due ambientate ancora ad Ostia, precisamente quella iniziale del film e quella del cimitero di sepoltura della povera Miranda; una terza al molo di Fiumicino per la partenza delle barche verso il largo ad ammirare il passaggio del transatlantico Rex; una quarta a Roma in via Governo Vecchio 39, Palazzo Nardini, per ubicarvi il ginnasio frequentato da Titta Benzi e dai suoi compagni; l’ultima, sempre a Roma, in via Capo Due Rami con l’albero sul quale sale pericolosamente lo zio Teo per il suo disperato grido “Voglio una donna!”
Insomma, da Roma e dintorni escono tutta la poesia e l’arte di Amarcord. Da tutto questo emerge la sconsolante verità quanto la proverbiale sentenza latina “nemo propheta in patria” ovvero nessuno è profeta in patria si sia amaramente riconfermata nel caso di Federico Fellini che soltanto fuori da ambienti familiari e natii ha saputo esprimere, far valere appieno le sue capacità di narratore, artista, pietra miliare del cinema mondiale.
Franco D’Emilio