Lo scorso 31 ottobre su diversi quotidiani le accuse per le quali il giudice delle indagini preliminari di Latina aveva disposto gli arresti domiciliari di Marie Terese Mukamitsindo e Liliane Murekarete, rispettivamente suocera e moglie del deputato Aboubakar Soumahoro: quest’ultimo, eletto nelle liste di Europa Verde, poi transitato al gruppo misto, caso eclatante di mediocre e sopravvalutata icona della sinistra radicale, indimenticabile per la pagliacciata degli stivali nel giorno di prima convocazione della nuova Camera dei Deputati dopo le elezioni politiche 2022.
Per cinque anni, a partire dal 2017, la cooperativa Karibu, gestita dalle due signore per l’accoglienza e l’avvio di immigrati al lavoro, avrebbe percepito quasi 30 milioni di euro dallo Stato per svolgere la propria attività, ma davvero pochissimi di tali fondi sarebbero stati utilizzati a sostegno degli immigrati, in realtà soltanto vergognosamente sfruttati, trattati senza dignità, lasciati senza assistenza, persino con poco cibo a disposizione, fra l’altro, spesso, pure scaduto.
Contemporaneamente, sempre il 31 ottobre, mi veniva segnalato come pure in provincia di Forlì tante persone bisognose e senza lavoro, sia immigrati che italiani, fossero assistite da taluna associazione caritatevole, anch’essa operante con la distribuzione di cibo scaduto.
Dunque, seppur diversi nella finalità, due esempi di “carità pelosa” ovvero di generosità apparentemente a fini solidaristici, ma, invece, mirata a un evidente tornaconto, individuale o di gruppo: nel caso delle due signore della cooperativa Karibu l’arricchimento e l’agio personale attraverso la distrazione dei fondi ricevuti per gli immigrati; nel caso delle iniziative caritatevoli forlivesi, invece, la volontà di ridurre l’impiego dei contributi, ricevuti dallo Stato, attraverso l’utilizzo del tanto cibo, periodicamente in dono dalla grande distribuzione alimentare o dai cittadini attraverso le raccolte del “banco alimentare”, più volte organizzate con appositi tavoli all’uscita dei supermercati.
La grande distribuzione risulta generosa di prodotti scaduti o in scadenza; al contrario, i cittadini sono esplicitamente invitati alla donazione di alimenti “in corso”, perlopiù in scatola o impacchettati, come latte, biscotti, pasta, legumi, tonno etc., oppure imbottigliati, quali olio, salsa. Minima, invece, la donazione di frutta e verdura, perché entrambe di celere deperibilità. Nel forlivese, come altrove, la distribuzione di questo cibo donato e raccolto avviene a quanti, indigenti, figurano registrati e tesserati dalla stessa associazione caritatevole che, così facendo, dimostra di possedere un proprio “portafoglio assistiti”, numericamente consistente e molto utile, da far valere al momento della richiesta annuale allo stato di quegli stessi contributi, dei quali si tende, poi, a contenere l’impiego. Tuttavia, la capacità distributiva del cibo messo assieme è davvero disorganizzata sul territorio provinciale e, alla fine, i magazzini restano colmi di prodotti sempre più scaduti, eppure conservati ostinatamente in ambienti frigoriferi o di congelamento.
Attualmente, a norma di legge, tutti gli alimenti hanno una scadenza; non tutti possono essere ugualmente conservati e consumati dopo la loro scadenza, si pensi, ad esempio, agli affettati, ai formaggi confezionati, agli omogeneizzati per l’infanzia; ancora di più, non tutti gli alimenti a disposizione delle associazioni caritatevoli sono conservati con modalità e in luoghi idonei, rigorosamente sotto controllo igienico-sanitario. Spesso, nei magazzini depositi di tanta “carità pelosa” si ricorre allo spacchettamento della pasta secca, soprattutto dalle confezioni di formato plurichilo ad uso ristorazione, per trarne quantità minori, ciascuna riposta in sacchetti di carta o nylon senza sigillatura, quindi esposta a parassiti e altre impurità.
Ancora, pure le associazioni caritatevoli, attive nel forlivese, usano distribuire patate, inadeguatamente conservate, dunque verdastre e germogliate, per questo inadatte all’alimentazione, considerato il loro elevato contenuto di solanina, sostanza tossica che si accumula nella buccia e nei germogli stessi. Una giovane madre, sola e con lo stipendio da fame di donna delle pulizie in un’azienda forlivese di provata “formula” nei servizi, mi ha riferito di essersi vista offrire gran quantità di patate germogliate oppure buste di prosciutto, oltre sei mesi dalla scadenza, o, ancora, confezioni di yogurt, rivelatosi andato a male per la sua “antichità”.
Una cosa è certa da parte della scienza dell’alimentazione: un alimento è scaduto dal giorno successivo alla data indicata sulla confezione e, come tale, non può più essere venduto, anche al fine di evitare al consumatore rischi per la propria salute. Se questo vale per la vendita, perché ignorarlo nel caso dei tanti sfortunati senza mezzi per sfamarsi, approfittando così del loro triste stato di necessità e dando, addirittura, prova di una generosità falsa e cinica?
Franco D’Emilio