Acqua n’è trascorsa davvero tanta dai tempi de “La Cina è vicina”, film di Marco Bellocchio del 1967, terribile satira sul velleitarismo politico della sinistra italiana, eppure, adesso, non solo i cinesi sono arrivati e sempre più numerosi sono tra noi, ma, addirittura, continuano ad impossessarsi progressivamente di tante nostre attività economiche e finanziare sino a ricavarne vantaggi e potere, pure politico, non indifferenti: è la tecnica dell’istrice che entra nella tana altrui, già disponibile, e se ne impossessa alla faccia del legittimo proprietario.
La Cina terzomondista con la sua emigrazione verso ogni parte del mondo, con le sue iniziali, onnipresenti attività e bottegucce di servizi, prodotti a poco prezzo, seppur di scadente qualità, ha costruito con pazienza confuciana un proprio impero diffuso, cresciuto e perfezionatosi nel tempo, sempre in attuazione di una strategica colonizzazione economico-finanziaria che possa attrarre più nazioni possibili nell’orbita dell’imperialismo politico della Cina, dichiarata e feroce dittatura comunista.
Però che paraculi questi cinesi, loro sono gente che lavora e basta, noi, invece, ci meritiamo l’accusa di sovranisti o nazionalisti, magari di razzisti e biechi sfruttatori delle nazioni più povere!
I cinesi presenti in Italia, circa 280.000 al 1° gennaio 2021, quindi terza comunità non comunitaria, costituiscono, da nord a sud del nostro paese, una micidiale “Cina Spa” ovvero una multinazionale con quasi 18 miliardi di euro di fatturato, qui compresi anche gli utili derivanti dalla partecipazione cinese a talune aziende italiane.
Sinora, hanno conquistato il commercio della grande distribuzione, fatto proprio il distretto tessile di Prato, sono già padroni di alcuni nostri importanti porti marittimi e si rivelano pure interessati al nostro trasporto aereo commerciale, infine, sono mattatori nei settori dell’abbigliamento, dell’automobile ed altri ancora, non escluse le nuove tecnologie; tutto questo, però, adesso non basta più, i cinesi vogliono prendersi anche le nostre piazze, magari quelle da sempre simbolo dell’identità di ogni città italiana.
Così, inevitabilmente, la cosa prima o poi sarebbe accaduta, domani in piazza Saffi a Forlì arriva per la prima volta il Capodanno cinese, sicuramente la festa più significativa della cultura e della tradizione della vasta Cina.
Dopo le pacchiane luminarie su un mercatino natalizio trito, miseruccio, ma caro, e su una pista di ghiaccio, tanto patetica in tempi di conclamato mutamento climatico, l’attuale giunta comunale di centrodestra di Forlì vuole ancora stupire e concede, appunto, l’uso di piazza Saffi al folclore dei cinesi, alla loro festa, all’assordante chiasso delle loro sonagliere e dei loro tamburi, all’invasivo profumo dolciastro del loro street food di involtini primavera e ravioli al vapore con l’immancabile salsa di soja.
Chissà se anche domani qualche faccia tosta di consigliere o assessore comunale ascenderà in vetta al campanile di San Mercuriale per il solito selfie sciocchino, questa volta celebrativo della sua faccia sullo sfondo sottostante di una Forlì in mano al Dragone cinese?
Ormai, mi aspetto di tutto, non mi stupirei affatto se un giorno si concedesse la stessa piazza per una festa della ritualità polacca o rumena oppure araba, magari, in quest’ultimo caso, addirittura per la preghiera serale dei mussulmani forlivesi. Mi aspetto, persino, che Valerio Melandri, assessore forlivese alla cultura, si faccia trascinare dall’euforia e dai tanti auspici del Capodanno cinese e veda colorarsi di giallo il suo infelice, smorto “miglio bianco”! Ci piaccia o no, anche a Forlì siamo in mano agli amici cinesi, così gentili, sempre inclini al saluto, ma, date retta, meglio pararsi la schiena.
Povero Aurelio Saffi, costretto dal suo piedistallo pure alla baraonda cinese nella piazza simbolo di Forlì, di tanta sua storia, di tanto suo cuore per costruire l’unità e l’identità italiana! È solo l’inizio, a Forlì il meglio del peggio deve ancora venire: ogni sanpietrino di piazza Saffi rischia di diventare una triste pietra d’inciampo.
Franco D’Emilio