Nel febbraio 2018 sono andato in pensione dal Ministero per i beni culturali e ambientali dopo una lunga attività di funzionario scientifico, trascorsa tra archivi, biblioteche, musei e altri uffici di soprintendenze: eppure, in questi oltre sei anni di serena e fattiva pensione, mi dedico, infatti, con continuità ad altri interessi, soprattutto nel campo della comunicazione, poco o nulla, soprattutto in meglio, come spesso mi aggiornano numerosi amici, ex colleghi, tuttora in servizio, è cambiato nella gestione complessiva del ministero, preposto alla tutela del nostro patrimonio culturale, così vario ed esteso quanto prezioso e unico al mondo.
Troppe cose sono rimaste e restano da tempo insolute, tanto da convincermi dell’attuale verità delle parole, scusate la punta di presunzione, con le quali mi congedai dall’amministrazione ovvero “vado in pensione, vedendo e lasciando irrisolti diversi problemi, già presenti e nella necessità di una sollecita soluzione al momento della mia assunzione oltre 35 anni fa“. Solo tanta mutevolezza e scarsa strategia, pianificata e continua nel tempo, hanno, infatti, da sempre caratterizzato la vita gestionale, strettamente amministrativa, e quella, più essenziale, strategica, dei servizi connessi direttamente alle finalità del Ministro per i beni culturali, quali la fruizione di ogni tipologia di bene culturale, il restauro, la promozione e valorizzazione del patrimonio, ancora di più l’educazione e la formazione professionale: quest’ultima mirata pure sulla tecnologia informatica, ma con la precedente parimenti utile a garantire nuove generazioni di addetti ministeriali di ogni livello, capaci di assolvere con efficacia alle proprie responsabilità d’ufficio.
Invece no, sinora la gestione ministeriale della cultura è stata, perlopiù, quella contradditoria del “passo avanti ed uno indietro”, dunque quasi gattopardesca del cambiare poco per non cambiare nulla, spacciando, spesso, per novità, degne di rilievo e valore, solo provvedimenti estemporanei, magari di efficace evidenza e clamore mediatico, ma sicuramente poco rispondenti a quei criteri generali di priorità e opportunità con i quali veramente si può assicurare la laboriosa e coerente attività di ogni ministero, compreso quello della cultura: tutto questo è avvenuto per corrispondere all’ambizioso protagonismo del maggior numero dei nostri ministri della cultura, convinti con poco arrosto e tanto fumo di assicurarsi il favore degli operatori, ma soprattutto, dei consumatori culturali, bacino elettorale non indifferente.
Ulteriore conferma di questa volubile estemporaneità, dell’uso strumentale della gestione culturale, insomma di tanto incaute approssimazione e impreparazione sono la frequente variazione della denominazione del ministero della cultura e l’elefantiasi burocratica dello stesso dicastero. A 50 anni dalla sua istituzione il ministero è passato dall’iniziale denominazione di Ministero per i beni culturali e l’ambiente (MBCA, 1974) a quella di Ministero per i beni culturali e ambientali (MBCA, 1976), praticamente la vigente al momento della mia assunzione in servizio; poi all’altra di Ministero per i beni e le attività culturali (MiBAC, 1998), ancora alla successiva di Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo (MiBACT, 2013), infine a quella attuale, più stringata ed onnicomprensiva, di Ministero della cultura (MiC, 2021): praticamente, in media, un cambio di nome ogni 10 anni.
Questa variabilità denominativa del ministero ha soltanto tenuto conto dell’eventuale attribuzione di nuove competenze culturali, quale, ad esempio, quella del cinema, oppure dell’accorpamento e, poi, disaccorpamento del turismo, ma mai ha contrassegnato in positivo una sostanziale crescita del valore qualitativo medio del nostro dicastero della cultura. Che dire, inoltre, già della sola, attuale organizzazione centrale dell’odierno Ministero, davvero smisurata, elefantiaca con un Segretariato Generale, ben 11 Divisioni Generali, 15 Istituti ad Autonomia Speciale, 4 Organi Consultivi Centrali e, per chiudere, 7 Comitati Tecnico-Scientifici? Davvero una lunga catena di comando che taluni cambiamenti del ministro Sangiuliano, miseramente travolto da uno scandalo da operetta, hanno addirittura contribuito ad allungare pretestuosamente, suscitando nel febbraio di quest’anno la contrarietà di un parere del Consiglio di Stato!
Se, poi, alla struttura centrale si aggiunge quella periferica con 17 Segretariati Regionali, 17 Direzioni Regionali di Musei, 60 Soprintendenze, preposte ad archeologia, belle arti e paesaggio, beni archivistici e bibliografici, infine a 100 Archivi di Stato, beh, allora c’é da sperare che almeno vi sia sufficiente personale dipendente per il funzionamento di tale mastodontico apparato burocratico. Invece no, solo sulla carta, quindi a chiacchiere, il Ministero della cultura dispone di quasi oltre 19.000 dipendenti, compresi i dirigenti, ma, in realtà, il suo organico effettivo risulta, invece, di 10.679 unità con una carenza di ben 8.321 dipendenti, pari al 43%.
Dunque, riguardo alla carenza di dipendenti poco o nulla è mutato rispetto alla situazione al momento della mia lontana entrata in servizio: così, si è provveduto allora e si provvede adesso a fare della cultura un volano dell’economia? Non basta, perché, facendo ancora di più le pulci al Ministero della cultura, si scopre che nel settore della vigilanza mancano quasi 5.000 custodi, mente 1.600 sono i vuoti nel settore dei funzionari archivisti, dei bibliotecari, degli archeologici, degli storici dell’arte, infine dei restauratori: quest’ultimi, depositari della trascorsa ed eccelsa tradizione ministeriale nel campo della conservazione e del recupero, sono stati negli ultimi trent’anni pesantemente penalizzati dalla mancanza di adeguati finanziamenti ai loro laboratori, ma, in particolar modo, sono stati colpiti dalla crescente, inarrestabile esternalizzazione delle attività di restauro, un vero obbrobrio perpetrato dal ministro Rutelli in poi a favore di soggetti privati o cooperative, non sempre di provata affidabilità e capacità.
Quindi, grave carenza riguardo alla custodia e alla conservazione, oltre che alla catalogazione e valorizzazione nel tempo del nostro patrimonio culturale. Qualunque progetto è sempre rallentato nel tempo da intoppi burocratici o, magari, modifiche oppure contrarietà politiche, legate proprio al cambiamento dei ministri per la mutevolezza dei nostri governi: in proposito, basta considerare la lungaggine nella realizzazione dei Nuovi Uffizi, tuttora incompleta ed entrata nel suo ventesimo anno di lavori.
Nei miei poco più 35 anni di servizio ho visto trascorrere ben 19 ministri, ciascuno con una durata media che non raggiunge i due anni e, se si considera quanto il cambio di ministro significhi spessissimo un rimaneggiamento, più o meno ampio, dei vertici dirigenziali centrali e periferici, allora si comprende perché in Italia non sia mai stato possibile realizzare programmati piani culturali, a medio e lungo termine, simili a quelli francesi, iniziati dal ministro Jack Lang, per ben 12 anni alla guida della cultura d’Oltralpe, persino in differenti governi. Né deve sfuggire come la politica italiana nella gestione del Ministero della cultura abbia sempre favorito nomine di vertice dirigenziale, prossime alle sue posizioni, quindi anteponendo lo schieramento, perlomeno l’allineamento dei nuovi dirigenti al governo in carica, di destra o sinistra che fosse: non sempre i meriti, le competenze, ancora di più le esperienze maturate sono state i parametri essenziali di buone nomine al vertice ministeriale.
Più di ogni altro ministero quello della cultura è sempre stato campo di ampia discrezionalità e parzialità nell’individuazione del proprio vertice dirigenziale e davvero pochi sono i ministri sottrattisi a questa pratica. Dei 19 ministri della cultura, sotto i quali ho lavorato, ne ho apprezzati e stimati solo 4, in successione cronologica Alberto Ronchey, Antonio Paulucci, Giuliano Urbani, infine Massimo Bray: tutte persone di grande spessore culturale, in particolar modo attenti e informati conoscitori delle problematiche gestionali della nostra cultura, quindi davvero degne di collocarsi nella prosecuzione del lavoro di Giovanni Spadolini, l’indimenticabile professore, padre del ministero, e di Oddo Biasini, galantuomo colto, acuto e affabile, entrambi voce del Partito Repubblicano. Evidenzio come dei 4 ministri, da me “salvati”, ben tre non siano esponenti di partito oppure di schieramento di destra o sinistra; solo Urbani è noto rappresentante del centrodestra, fra l’altro cofondatore di Forza Italia, meritevole di aver finalmente concluso il Codice dei beni culturali.
Questa realtà, così mutevole e condizionata dalla politica, più che altrove ha lasciato e lascia spazio al clientelismo, al familismo, al nepotismo, mali pressoché endemici, cronici nell’amministrazione del nostro Ministero della cultura, soprattutto nella gestione del personale, nella politica delle assunzioni e, perché no, delle strapagate consulenze esterne: quello dell’ex ministro Sangiuliano e dell’aspirante consulente, signora Boccia, è solo uno scandaletto, sicuramente deprecabile, ma poca cosa rispetto al più esteso, silenzioso e sotterraneo scandalo della gestione arbitraria del personale ministeriale, centrale e periferico, da decenni portata avanti, pure con la grave responsabilità dell’avvallo da parte delle organizzazioni sindacali.
Tutt’oggi, quello della cultura è il ministero col maggior ricorso, quasi un abuso, alla discrezionale attribuzione di mansioni superiori, solitamente a “cocche e cocchi” di qualifica inferiore, ma beneficiari di adeguata protezione. È chiaro che in questo quadro sia inevitabile distogliere l’attenzione dalle problematiche della cultura, cercando il clamore della straordinarietà, dell’eccezionalità, persino nelle stesse attività ordinarie: perché, ad esempio, esaltarsi oltre misura del ritorno alla luce di nuovi spazi pompeiani dal momento che lo scavo archeologico di Pompei è un cantiere aperto, quindi finalizzato a nuovi recuperi? Intanto, gli anni trascorrono e il nostro Ministero della cultura pare più soffrire di propri mali anziché gioire di universali beni culturali.
Franco D’Emilio