Assai diffusa negli ultimi tempi, quasi trendly, la voglia di salire in alto ad ammirare la propria amata città, come in un’ascensione fisica o, addirittura, ascesi spirituale verso maggiori orizzonti, utili a risollevarci dall’amara, corrosiva consapevolezza di vivere, essere finiti in tanta pochezza, cacca del presente. Salire è perenne aspirazione umana, per questo “Ascendere semper” è motto latino di molti nostri stemmi comunali, nonostante si conosca la difficoltà di giungere “per aspera ad astra”.
Eppure, questa voglia, aspirazione ascensionale è, ormai, sempre più spesso, solo fuga dalla realtà, una fuga che, fra l’altro, in un buon cristiano contraddice le parole di Paolo agli Efesini “Cosa significa che ascese se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” ovvero che la via per ascendere al cielo presuppone, necessario e fondamentale, che, innanzitutto, si viva, gioisca e soffra la personale vicenda umana sulla terra. In questa pratica di alpinismo urbano non è da meno Forlì col campanile della sua Abbazia di San Mercuriale, sempre svettante su piazza Saffi in un anelito di cielo, ben oltre lo sguardo, soltanto terreno, di Aurelio Saffi, dalla sua statua verso la Roma, ancora memore del suo glorioso triumvirato.
Dunque, pure a Forlì impavidi cittadini salgono in cima al campanile abbaziale alla ricerca dell’orizzonte di una più ampia panoramica cittadina che, certamente, molto include come, però, tanto esclude: da lassù, infatti, come uno zoom fotografico, la visuale si estende sulla generalità macroscopica dei tetti forlivesi allo stesso modo come da’ una vista scenografica d’insieme di piazza Saffi, oscurandone dettagli particolari e opachi. Dalla vetta di San Mercuriale Forlì è solo bella, spettacolare, persino suggestiva, non si vedono più le magagne, neppure un bruscolo che possa diventare trave nell’occhio dei soliti forlivesi lamentosi. Una Forlì che lumina e brilla, vi siano o no luci e lucette, luminarie e giochi dell’usuale, falso natale acchiappacitrulli.
La scalata al campanile di San Mercuriale è trasversale sia politicamente che culturalmente: sale su chi di destra come chi di sinistra; sale su chi incolto e credulone come l’intellettualino, magari onnipresente cicerone di vaganti comitive oppure autore di libercoli su scontate pulci alla storia cittadina, libercoli appena giusti, a volte, a pareggiare la gamba di un tavolo, traballante sul pavimento accidentato della cultura a Forlì. Ecumenicamente, tutti ascendono intrepidi, ovviamente muniti di cellulare per un indimenticabile selfie e uno scatto vertiginoso alla stesa dei tetti forlivesi. Nella vertigine del vuoto sottostante e del volo, oltre i confini dei soliti piedi a terra, ciascuno compie un viaggio euforico, il suo trip allucinato su una Forlì, che solo dall’alto ci appare di tegole immobili e innocue, ben diverse da quelle avverse che, spesso e non sempre accidentalmente, ci colpiscono tra capo e collo.
Inconsciamente, comunque in buona fede, diversi forlivesi scalano San Mercuriale per una vista favolosa e amorevole alla loro città, insomma a dimostrazione del loro profondo sentimento campanilistico: in realtà, è solo testimonianza di un amore esagerato, irriflessivo, anche gretto col quale cercano di ristabilire un feeling interrotto da tempo, quello a piedi e lo sguardo attorno nelle vie di una Forlì, sempre più problematica e con tante ombre. Spesso, mi chiedo cosa provino alla discesa gli scalatori della vetta di San Mercuriale: forse, corrono a casa, mestamente consapevoli di aver vissuto un’esperienza unica, ma effimera e che, domani, a Forlì sarà nuovamente un altro giorno con la vista ravvicinata a terra di tanti peccatucci e magagne.
Franco D’Emilio