
Ai forlivesi la pazienza non manca, in passato ne hanno già viste e sopportate tante, da sinistra come da destra, e spesso pure finite in una grande disillusione, quindi, figuriamoci, se non sono disponibili a nuove attese, anche rinviando quell’inevitabile, pressante resa dei conti, già sollecitata dai molti, intricati nodi, venuti inesorabilmente al pettine. Aspetteranno, pazientemente miti, ma non popolo bue, dunque, se ancora di più finiti in malora per loro sbaglio o credulità in fanfaronate altrui, tireranno le somme e chi ha rotto pagherà, nel migliore dei casi tenendosi i cocci della sua insipienza.
Aspetteranno, magari, tre anni, che non sono pochi per vedere se, come ha dichiarato ai quattro venti con trionfalistica enfasi a tamburo battente, l’Amministrazione cittadina si sia rivelata davvero vigna e cantina di vino buono, senza alcuno spunto di aceto o sentore di tappo. Tre anni sino al 2028, non uno di più, per vedere se realizzato il nuovo carcere; se perlomeno già a buon punto il recupero del complesso di S. Maria della Ripa; se concretizzatasi l’ambizione di Forlì capitale italiana della cultura; se, perché no, ad obiettivo raggiunto tutti i progetti ad ampio respiro asmatico, ora nei disegni di assessori, dei quali ho perso ore a leggere tante buone intenzioni, ma dei quali, alla fine, andrà testato quanto nei fatti siano stati pari alle parole spese.
Come tutti i cittadini con un buon pizzico di sale in testa, anche i forlivesi coniugano la loro vita soprattutto col tempo del presente quotidiano e solo col minimo, giusto tempo futuro di pochi progetti che verranno: proprio tutto il contrario degli amministratori forlivesi che parlano e scrivono solo al futuro, tipo “faremo, realizzeremo, risolveremo”, così che tra il dire e il fare ci sia di mezzo solo il loro mare, quello di tantissimi annunci. I forlivesi sono di origine contadina, scarpe grosse e cervello fine, dunque l’apparenza inganna, ma l’acume è vispo e attento: se traditi, la loro bonarietà non esita a divenire aspra avversione e, allora, dicendola alla fiorentina, “bambini mia”, il cielo tira al brutto, giustamente fulmini e saette.
I forlivesi sono, lo ripeto con ammirazione, contadini sagaci, convinti che meglio un uovo oggi che una gallina domani, magari meglio anche oggi fiumi e fiumiciattoli puliti, piuttosto che domani alluvioni d’acqua e legno, tuttavia sono stati disponibili a cedere quell’uovo per la cova di chissà mai quale risultato, metafora della soluzione dei numerosi problemi della Forlì pre e post alluvione. Occhio, però, se quell’uovo fosse rimasto fuori dalla cova senza dare il pollo sognato, perché in quel caso, altro che “Forlì che brilla”, sarebbe soltanto una “Forlì che tira il collo” ai galletti amministratori, pure inseguendoli tra le case del “miglio bianco”.
In quel caso, non sarebbe neppure più un acronimo la sigla MARS, ve la ricordate, che con le iniziali di Merenda, Albertini, Romagnoli e San Domenico, tre edifici cittadini, designava il nuovo, moderno polo culturale forlivese, rivaleggiando pappagallescamente, solo nel nome, col MART di Rovereto: in quel caso, MARS sarebbe proprio Marte, il dio romano della guerra, giustamente incazzato contro incauti amministratori forlivesi, vandalicamente barbari. Capisco che tra il dire e il fare, al posto dell’oceano di tanto lavoro, meglio il mare degli annunci, magari sperando di fruttarne la scia nell’imminenza delle elezioni amministrative del ’29.
È sempre più facile farla facile e fingere che, adesso, tutto scorra, sia rapidamente possibile, nonostante i persistenti lacci e lacciuoli di tanta burocrazia, nonostante la disponibilità e l’erogabilità tardive dei finanziamenti pubblici, nonostante la frequente mutevolezza tecnica dei progetti in corso. Nessuno è così fesso da credere a questa bella favola, eppure i forlivesi pazientemente aspettano, seppure già amaramente tristi, delusi per tanta aulica mediocrità, assisa sui propri scranni cittadini.
Franco D’Emilio