L’antifascismo da Peppone ai suoi cattivi nipoti

peppone senatore

Spesso, in prossimità della ricorrenza del 25 aprile capita che mi tornino alla mente alcuni momenti, anche molto lontani o più recenti, utili a persuadermi quanto inconsistente, a volte pure ridicolo, perché ampiamente fuori luogo, sia stato e sia tuttora utilizzare a vanvera il termine antifascismo come sinonimo di libertà, di democrazia. Sinora, ho avuto la fortuna, la possibilità di vivere e partecipare intensamente tanti avvenimenti, lieti e tristi, della storia nazionale e delle città, dove ho vissuto tra la Toscana e l’Emilia-Romagna, per questo mi fa sorridere tanta retorica celebrativa, ogni anno risorgente a celebrare una Festa della Liberazione, ostinatamente divisiva e malvagia negli intenti dei suoi patetici cantori.

Venerdì scorso, parcheggiando in una strada defilata del quartiere Testaccio a Roma, mi sono imbattuto in un muro, imbrattato dalla stupidità umana di un grossolano antifascismo graffitaro: una forca e sotto la scritta “Il 25 aprile per un nuovo piazzale Loreto. Corda al collo della Meloni”. Questo pochi giorni dopo essere stato testimone diretto, sempre nella capitale, di studentelli imberbi e cretinetti con la paghetta sicura di papà e mammà, che giocavano al tirassegno contro foto, affisse su alcuni alberi, della Presidente del Consiglio, colpevole quale indegna fascista e guerrafondaia. Momenti che mi hanno lasciato attonito di tanta idiozia: idiozia espressa in quella piena libertà che l’antifascismo vuole riconoscere solo a chi sacerdote o chierico oppure ignaro credulone della falsa retorica di Ora e sempre Resistenza!

Gli antifascisti, perlopiù eroi della Resistenza sulle spalle, anzi no sul fondoschiena degli alleati, tante, ormai, le prove documentarie inconfutabili al riguardo, e ancora di più tutti i loro eredi passati e presenti non hanno mai voluto ricomporre l’unità nazionale alla fine della guerra, anzi hanno continuato e continuano a rinnovare l’epica anacronistica della Resistenza perché nella necessità ad ogni costo di un bieco nemico fascista che giustifichi il loro conservatorismo all’insegna della propria sopravvivenza di antifascisti, anche se senza più reali nemici fascisti. Ai tempi attuali l’antifascismo è soltanto una clamorosa bufala, una baggianata che offende il buon senso, l’intelligenza di quanti veramente hanno cuore il progresso e la concordia nazionale.

Eppure, nell’imminenza del 25 aprile gli antifascisti resistenzaioli, come li definiva il grande Guareschi, rialzano la cresta e si scuotono, magari dopo un torpore annuale, tanto povero di argomenti da far valere. Proprio Guareschi mi soccorre con una scena dal film “Don Camillo, Monsignore… ma non troppo“: Peppone ovvero Giuseppe Bottazzi, ex partigiano e sindaco comunista di Brescello, eletto senatore a Roma, sonnecchia sui banchi dell’aula parlamentare, salvo svegliarsi all’improvviso per il chiasso del dibattito in corso e d’istinto, quasi per un riflesso resistenziale condizionato, gridare ripetutamente e a vanvera, insomma a bischero sciolto, per dirla alla fiorentina, “Fascisti, fascisti!” Poveretto.

Stamani, mi è tornato alla mente anche l’8 luglio 1971, la vergogna di quel giorno alla facoltà di lettere dell’Università di Firenze quando giovani della sinistra extraparlamentare, Potere Operaio e robaccia affine, contestarono, dileggiarono, pure chiamandolo asino, e processarono il professor Ernesto Ragionieri, appassionato docente di storia contemporanea, accusandolo di essere un “barone rosso” e, soprattutto, un mandante ideologico della repressione, per loro fascista, contro gli eccessi postsessantottini. Nulla di più falso e vigliacco! Il prof. Ragionieri era un insegnante esemplare, di grande disponibilità verso gli studenti, capaci di impegno costante e passione verso gli studi; era sì comunista convinto e pure membro del Comitato Centrale del PCI, eppure sempre aperto al confronto e ben lontano dal sottolineare la sua militanza politica.

Lo ricordo come un episodio indegno che offendeva la cultura e un suo maestro, in nome, pure a quel tempo, di un antifascismo becero, casinaro, sul quale il PCI fiorentino aveva la responsabilità di aver chiuso volutamente entrambi gli occhi per la solita, ruffiana tolleranza che i compagni dell’allora sinistra extraparlamentare fossero, come poi sarebbero stati etichettati pure gli assassini delle Brigate Rosse, solo dei “compagni che sbagliano”. Ancora oggi compagni che sbagliano gli inarrendevoli antifascisti resistenzaioli e i novelli partigianelli, generazione Z, nati dopo il duemila?

Franco D’Emilio

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