Perché sì a Forlì via Sergio Ramelli

Via Sergio Ramelli

È un diritto imprescindibile quello che ogni cittadino sia libero di onorare chiunque caduto, ucciso per il suo credo politico, per la sua concezione della libertà, della democrazia e dello stesso stato, del quale si è sentito partecipe e critico con le proprie idee. Personalmente, anche perché, per mia fortuna, rigorosamente educato da “buoni maestri familiari e scolastici”, ho sempre onorato e onoro le persone capaci di immolarsi sino all’estremo per una causa, da loro ritenuta giusta nel segno della civiltà, ma mai ho pensato che la doverosa celebrazione di queste persone esemplari, simbolo, pur sempre, di un bene relativo e di parte, significhi la presenza e, soprattutto, la continuità di un contraltare di cattivi, maligni nemici, relegabili “ad aeternum” nella fogna dell’ignominia.

La nostra amata Italia ha conosciuto due terribili guerre civili: la prima, più estesa, coinvolgente, quindi divisiva, quella tra fascismo e antifascismo nel corso della Seconda Guerra Mondiale e in presenza, cosa non da poco, di un’effettiva dittatura liberticida del regime fascista; la seconda, quella dei cosiddetti “anni di piombo” dagli anni ‘70 ai primi ’90, sicuramente meno estesa e coinvolgente, però terribilmente terroristica a scapito di cittadini inermi, sia per mano dell’estremismo nero che di quello rosso, entrambi, però, operativi, stavolta, nell’humus della democrazia repubblicana e costituzionale. Due guerre civili, dunque, di diversa entità e natura, ciascuna con i morti dell’una e dell’altra parte.

Morti che parimenti meritano sempre rispetto per la coerenza, anche grave, delle proprie scelte. Quella coerenza che, invece, alcuni riottosi vincitori dell’ormai lontana epopea antifascista resistenziale negano tuttora ai loro avversari, volendo quasi detenere l’anacronistica pretesa e l’assurdo privilegio che soltanto, ripeto soltanto, i loro caduti possano, debbano ancora santificarsi ad oltranza e quelli della parte avversa, ritenuta sordidamente fascista, possano, debbano al contrario sempre demonizzarsi senza se e senza ma.

Gli anni di piombo del terrorismo rosso e di quello nero, neorivoluzionario comunista il primo, neofascista il secondo, sono stati sconfitti proprio dalla democrazia, finalmente seguita al crollo del fascismo e poi, sino ai nostri giorni, divenuta patrimonio comune di tutti gli italiani, a prescindere dalle idee politiche personali; quindi, tutti siamo partecipi nella stessa misura di una vita democratica che, certamente non può e non deve più connotarsi né di sinistra né di destra.

Chi fa il contrario pesca nel torbido della più bieca faziosità divisiva; rinnova in qualche bocca infelice, come quella di Elly Schlein, segretaria del PD, la voce che la destra politica al governo sia solo sinonimo di anticamera di un risorgente pericolo fascista. Parole povere di chi alla frutta, di chi inarrendevole all’evidenza di essere stato sconfitto dall’elettorato e, prima ancora, pure dalla storia con l’approfondimento come in passato il sangue dei vinti sia stato degno e pari al sangue dei vincitori.

La morte merita sempre rispetto, anche quella di Sergio Ramelli, diciottenne del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile di destra del Movimento Sociale Italiano, ucciso a sprangate nel 1975 a Milano per mano di elementi di Avanguardia Operaia, formazione dell’estremismo di sinistra: assassini nella folle convinzione del tragico slogan che “uccidere un fascista non è reato”.

Sarà, me lo auguro, la decisione a maggioranza dell’attuale amministrazione forlivese di centrodestra a favorire giustamente l’intitolazione di una via cittadina al povero Sergio Ramelli, cosi come nei luoghi di diverse città è avvenuto per onorare la memoria del sindacalista Guido Rossa, barbaramente ucciso a Genova nel 1979 dalle sinistre Brigate Rosse. Ai sostenitori forlivesi dell’Anpi l’invito ad uscire fuori dalla logica, solo prova di tanto patetico, servile vecchiume ideologico, degli stereotipi antifascisti e fascisti.

Franco D’Emilio

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