Quella storia di armi dai partigiani comunisti ai terroristi rossi

Partigiani della Pace

Intanto, qualche richiamo molto significativo sulla provenienza delle armi, utilizzate dal terrorismo rosso in Italia sin dai suoi primi esordi. La pistola, usata il 28 ottobre 1974 a Sesto San Giovanni per l’irruzione con rapina alla sede della Cisnal, sindacato prossimo al Movimento Sociale Italiano (MSI), partito di destra ispirato ai valori del Fascismo, fu una Beretta calibro 9 corto, modello 34, recante lo stemma stampigliato “Regio Esercito”; pochi mesi dopo, più precisamente nel gennaio 1975, sempre a Sesto San Giovanni, l’arma dell’attentato, fortunatamente fallito, contro l’ing. Gioacchino Giunta, responsabile del personale all’Ercole Marelli, fu addirittura una rivoltella Glisenti, calibro 10,35 millimetri a canna ottagonale, modello del 1889, a lungo in dotazione al nostro esercito sino alla Prima Guerra Mondiale.

Entrambe le armi, come accertato, provenivano da arsenali partigiani d’ispirazione comunista, mai consegnati a polizia e carabinieri alla fine della Seconda Guerra Mondiale, così come disposto dall’autorità di governo: in questo modo, ben oltre il 40% delle armi, definite “benedette” dal leader Palmiro Togliatti, rimase nella piena, segreta disponibilità comunista. Anzi, nel caso della Beretta, impugnata contro la Cisnal, emerse che la pistola proveniva da una dotazione, sottratta da partigiani comunisti alla Repubblica Sociale Italiana (RSI), la stessa d’origine della Beretta, impugnata per uccidere Mussolini a Giulino di Mezzegra dal partigiano Aldo Lampredi, sostituto del capo comunista Luigi Longo nel Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà: in realtà, la pistola s’inceppò al pari del mitra del colonnello Walter Audisio che, alla fine, uccise il Duce con un mitra MAS 1938, calibro 7,65 lungo, di fabbricazione francese, strappato di mano a Michele Moretti, commissario politico della 52^ Brigata Garibaldi.

D’altronde, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari, entrambi delle terroristiche Brigate Rosse, hanno dichiarato come il passaggio e l’uso di armi dalla lotta partigiana comunista a quella brigatista siano stati il simbolo e il valore di una continuità rivoluzionaria: “I partigiani che si sentirono traditi passarono pistole e fucili a noi, per fare finalmente la rivoluzione.” Tra il 1969 e il 1971 a Reggio Emilia si formo il primo nucleo delle Brigate Rosse, a partire da quel gruppo, denominato “Appartamento”, di giovani dissidenti, fuoriusciti dalla FGCI ( Federazione Gioventù Comunista Italiana).

Non solo, coerentemente col principio che gli estremi si toccano anche nella dotazione delle armi, non possiamo dimenticare la complicità, storicamente accertata, tra il repubblichino Licio Gelli e Italo Carobbi, comandante delle forze partigiane comuniste pistoiesi, per la sottrazione di armi fasciste a favore della sola resistenza comunista: per lungo tempo dalla fine della guerra e attraverso il cosiddetto “ livello ombra” dei vertici del PCI, anch’esso infiltrato dalla loggia massoni a P2, Gelli mantenne uno stretto, segreto rapporto con la dirigenza comunista, pure ai fini di ogni attività informativa e di controllo del terrorismo rosso.

Ne’ va dimenticato quanto l’infiltrazione comunista degli organici di polizia nelle questure italiane dell’immediato secondo dopoguerra abbia agevolato che armi partigiane fossero sottratte alla consegna presso le autorità preposte. Eppure, tuttora, risulta ancora tanto indispettire ogni ricerca di verità sull’arsenale del terrorismo rosso, ad opera dei soliti “compagni che sbagliano” ed hanno sempre madornalmente sbagliato, mai rassegnati che la loro rivoluzione comunista fosse stata sconfitta dalla storia, dal buonsenso degli italiani.

Franco D’Emilio

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