Il 30 ottobre scorso il Senato della Repubblica ha approvato in quarta lettura la riforma della giustizia che prevede la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e di quelli giudicanti. Adesso, lo scontro si sposta sul piano del referendum confermativo, nelle intenzioni sia della maggioranza politica che dell’opposizione, e a Forlì pare che lei, avvocato Minutillo, sia già attivo per il Sì referendario. Perché, le chiedo a bomba, tanta tempestività nello schierarsi, raccogliendo il consenso dell’avvocatura forlivese? «Mai, in tanti anni di professione, avevo assistito al comizio di un giudice. Ma, l’altro giorno, ho ascoltato le parole di Nicola Gratteri all’assemblea dell’Associazione Nazionale Magistrati. Con tono da tribuno, Gratteri ha detto testualmente: “Non è tempo di passerelle o di convegni con professori e avvocati. Bisogna parlare alla gente con i 400 vocaboli che conosce, spiegare cosa sta accadendo e perché la giustizia è importante per tutti.” Parole che rivelano la deriva di una magistratura che non si accontenta più di giudicare, ma pretende di guidare, educare, convincere i cittadini. Un ruolo che per la Costituzione spetta alla politica. E quando la toga diventa megafono, la giustizia smette di essere imparziale. Ecco perché mi sono convinto che è arrivato il momento di agire. Da avvocato già impegnato in mille battaglie per i diritti civili della nostra comunità sento il dovere di iniziare a battere il nostro territorio e spiegare ai cittadini – anche a chi non conosce le tecnicalità della giustizia – perché bisogna dire Sì alla riforma e No a giudici che scambiano la toga per un pulpito politico».
Nella sua capacità di saper coniugare analisi e sintesi mi esprima con efficacia lapidaria i motivi innovatori e positivi della riforma approvata. «Il cuore della riforma è la separazione netta delle carriere tra chi giudica e chi accusa. Due funzioni diverse, due ruoli inconciliabili. Non si può, a giorni alterni, accusare e giudicare: o si nasce per una funzione o per l’altra. Come facciamo noi avvocati quando dopo la laurea iniziamo la pratica forense e scegliamo di difendere. E poi lo facciamo per tutta la vita. Ma la vera novità – e insieme la vera paura dell’Associazione Nazionale Magistrati – è un’altra: il sorteggio dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Perché significa la fine del potere delle correnti, la fine dei giochi di cordata, delle carriere costruite nei corridoi delle toghe amiche messa a nudo dalla vicenda Palamara».
Nell’attuale processo, ora in discussione con la riforma del ministro della giustizia Carlo Nordio, lei ritiene che veramente mancasse la piena, obiettiva terzietà da parte della magistratura giudicante? «Sarò sincero: non sono mai sereno quando mi trovo a discutere un processo penale davanti a un giudice che nella sua vita è stato pubblico ministero. Non perché il magistrato in questione non voglia essere imparziale, né perché provi simpatia per l’accusa, ma perché – com’è umano che sia – può esserne inconsciamente condizionato. Chi ha trascorso anni a sostenere le tesi dell’accusa finisce per portarsi dietro un’impostazione mentale, un modo di leggere le prove e le persone. Costa davvero tanto, in un Paese civile, pretendere che a giudicare sia sempre e solo chi ha scelto, per tutta la vita, di giudicare? La riforma serve a questo: a togliere ogni sospetto, ogni possibile ombra, e a restituire ai cittadini la certezza di un giudice che non è mai stato, né mai sarà, l’accusatore».
Con il nuovo assetto giudiziario diventano due i Consigli Superiori della Magistratura (CSM), uno per il ruolo requirente, l’altro per quello giudicante, e si aggiunge un’Alta Corte Disciplinare: questo non costituirà un aggravio burocratico, magari di possibile rallentamento del lavoro della magistratura? «No, non si tratta affatto di un aggravio burocratico. I nuovi organi non si occuperanno dell’amministrazione quotidiana della giustizia, ma, sostanzialmente, dell’autogoverno della magistratura. Oggi abbiamo un solo Consiglio Superiore della Magistratura che svolge contemporaneamente tre funzioni: gestisce le carriere, assegna gli incarichi e giudica disciplinarmente i magistrati. Domani ne avremo tre, ciascuno con una competenza distinta: due CSM separati – uno per i giudicanti e uno per i requirenti – e un’Alta Corte Disciplinare autonoma. Questo non rallenterà, ma anzi renderà più efficiente e trasparente il sistema. Perché si eviterà il cortocircuito che oggi consente a un magistrato di decidere sul trasferimento o sulla carriera di un collega e, un domani, di trovarselo davanti come giudice in un procedimento disciplinare. Con la riforma, chi giudica le condotte dei magistrati non avrà mai avuto potere sulle loro carriere. È la fine di un intreccio che in passato ha prodotto condizionamenti, opportunismi e timori».
L’opposizione dichiara la sua contrarietà alla riforma Nordio per due motivi: primo perché propedeutica ad una svolta autoritaria, riconducendo la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo, quindi riducendone l’autonomia; secondo perché riforma inapplicabile, considerata l’esiguità degli organici del personale di supporto al lavoro degli stessi magistrati nei tribunali (operatori, assistenti, cancellieri). Quale, al riguardo, il suo pensiero? «Continua, imperterrita, la strategia della menzogna da parte degli avversari della riforma. Ci raccontano che il vero scopo sarebbe “prendere il controllo del pubblico ministero”, come se bastasse ripetere uno slogan per farlo diventare vero. È un argomento tanto comodo quanto falso, perché la riforma scrive nero su bianco – nella stessa Costituzione, art. 104 – che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Chi oggi parla di rischio autoritario evidentemente conta sul fatto che i cittadini non leggano l’articolo 104 della Costituzione, così come modificato. Perché se lo leggessero, capirebbero che questa riforma rafforza – non indebolisce – l’indipendenza della magistratura. È una vergogna che si continui a spaventare l’opinione pubblica con menzogne, per difendere soltanto equilibri interni e privilegi di categoria. Basta leggere il testo per rendersi conto che l’autonomia del giudice e del pubblico ministero non solo resta intatta, ma viene finalmente riconosciuta in modo distinto, chiaro e definitivo. Quanto al secondo argomento è semplicemente pretestuoso. Non mi risulta che procure e tribunali condividano oggi il medesimo personale amministrativo. Sono uffici distinti, con personale distinto e competenze diverse. Nulla cambierà sotto questo profilo, se non in meglio, perché la chiarezza delle funzioni porterà anche maggiore efficienza organizzativa».
Avvocato Minutillo, sulla base della sua esperienza professionale e della conoscenza di tanta dottrina giuridica ritiene che questa riforma della giustizia italiana costituisca davvero un effettivo progresso del nostro diritto? «Più che di un progresso, parlerei di un necessario adeguamento costituzionale alla riforma del codice di procedura penale del 1989, che già allora aveva rivoluzionato il nostro processo penale, trasformandolo da inquisitorio ad accusatorio. Oggi, infatti, abbiamo un processo in cui l’accusa deve dimostrare la colpevolezza dell’imputato, e il giudice deve limitarsi a valutare con imparzialità ciò che le parti portano davanti a lui. Prima, nel vecchio sistema, era sostanzialmente l’imputato a dover dimostrare di non essere colpevole, e il pubblico ministero era quasi un “collega” del giudice, addirittura fisicamente collocato al suo fianco. Basta ricordare, per capirlo, una celebre scena del film Le motorizzate (1963), in cui Totò, nei panni di un vigile urbano, si ritrova imputato davanti a un collegio di magistrati: il pubblico ministero siede accanto al giudice, mentre l’avvocato difensore è relegato di fronte a loro, a fianco all’imputato, in un angolo, quasi estraneo al cuore del processo. Quella scena rappresenta plasticamente il vecchio modello inquisitorio. La riforma del 1989 cambiò tutto: mise l’avvocato e il pubblico ministero uno accanto all’altro, come parti contrapposte, e il giudice di fronte, terzo e imparziale. Separare oggi, anche sul piano costituzionale e organizzativo, le carriere di chi accusa e di chi giudica non è altro che l’attuazione coerente di quella riforma. Lo diceva già Giovanni Falcone secondo cui la separazione sarebbe stata necessaria con il nuovo codice di rito. E questa riforma, finalmente, chiude il cerchio».
Infine, avvocato, prendendo spunto dal suo impegno per la difesa dei diritti commemorativi della destra radicale (saluto romano, appello del Presente!), lei pensa che la separazione delle carriere possa assicurare pure maggiore obiettività di giudizio nella valutazione di queste celebrazioni? «Il mio auspicio è un altro: che non si arrivi alla fine del referendum con una magistratura trascinata in una campagna politica. Già in questi primi giorni vediamo magistrati, come Gratteri alla Associazione Nazionale Magistrati, che scendono in campo, prendono posizione, fanno comizi. È un segnale preoccupante. Perché quando un potere dello Stato entra in una contesa elettorale, inevitabilmente si espone a una logica di schieramento, e dunque di perdita o di vittoria. Ma la magistratura non può permettersi di “perdere”. Perdere una campagna elettorale ha sempre un costo, e questo costo sarebbe la perdita di credibilità dell’intero ordine giudiziario. Ecco perché il mio auspicio è che la magistratura resti fuori dalla battaglia politica, salvaguardando la sua funzione e la sua autorevolezza. Perché davvero sarebbe imbarazzante trovarsi, dopo il referendum, a discutere in un’aula di giustizia di temi delicati – come le commemorazioni storiche o i reati d’opinione – davanti a un magistrato che per mesi abbiamo visto schierato pubblicamente contro la riforma costituzionale. La giustizia, per essere credibile, deve essere terza anche nel silenzio».
Franco D’Emilio