Paturnie domenicali post alluvione

Piero Gobetti Maurizio Viroli

Ha piovuto tutta la notte, ora piove a tratti, sicuramente il tempo non promette nulla di buono, una domenica post alluvione davvero lacrimevole! I miei occhi inquieti sono altalenanti tra il cielo, grigio e incerto, e la grata davanti casa per lo scolo della pioggia; mi rassicura tanto sentire il gorgoglio dell’acqua in corsa verso le fogne: che strana sensazione, quasi vivessi nell’imbuto tra la minaccia ampia, incombente del cielo e la speranza ristretta, ma forte che tutto scorra, imbocchi la strada giusta. Dopo tanta calamità disastrosa, lo ammetto, ho bisogno e, ancora di più, voglia di sperare, ma motivi di speranza mi vengono, adesso, più da un tombino stradale, gorgogliante di scorrevole acqua piovana, che dalle parole degli uomini.

Non mi fanno affatto sperare le parole del Comune di Forlì che le fogne siano libere, niente affatto intasate, ma sicuramente siano diventate inadatte, obsolete per lo smaltimento delle copiose precipitazioni, tipiche dell’ormai consolidato cambiamento climatico, persino sulla Romagna, non più idilliaca “solatia, dolce paese”. Sono parole di fuga che nell’incapacità di saper fronteggiare un nuovo stato delle cose incolpano di tutto l’obsolescenza, l’invecchiamento della realtà, degli strumenti finora a nostra disposizione. Così, chi ricopre responsabilità si cava fuori da ogni colpa, in molti casi accusando l’operato di chi l’ha preceduto.

C’è, addirittura, chi in questa fuga, come gli epigoni forlivesi di Alberto da Giussano, punta all’esagerazione, all’iperbole del meteo per cui un semplice nubifragio diventa una micidiale, eccezionale “bomba d’acqua”, aprendosi così la strada anche alla panzana di prossimi uragani su Forlì. Tutto diventa obsoleto? Non mi pare lo diventi mai la dominante, mediocre, sempre mutevole prassi politicante, grande e piccola o nazionale e locale che sia: no, lei resta sempre attuale, quasi immarcescibile “Ercolino sempre in piedi”, pupazzo, ricordate, con la raccolta punti della Galbani negli anni ’60.

Solo noi cittadini diventiamo, all’occorrenza, obsoleti, anche soltanto come singole persone, ciascuna con la propria vicenda umana: in questa domenica di paturnie post alluvione mi incontro nel riflesso di uno specchio di casa, chiedendomi quanto io, cittadino e uomo, possa risultare obsoleto nel mio essere “Uno, nessuno e centomila” o solo parte di questa triade del contrasto pirandelliano tra l’apparire e l’essere.

Sento che il post alluvione incrina le mie certezze, forse mi fa cazzeggiare, ma perché rassegnarmi che sia obsoleto il mondo attuale ad accogliere una purificatrice pioggia dannunziana “sui freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione”?

Obsoleti anche i miei libri, attorno allo specchio, che si rincorrono nella fila dei titoli, ognuno un viaggio nella conoscenza, nella vita, nella diversità dei pensieri altrui? Pure loro, maestri unici, ora obsoleti al pari di fogne non più sufficientemente recettive di miserabile melma? Vorrei che tra poco venisse giù un bello scroscio, correrei all’aperto, braccia spalancate e viso al cielo sotto la pioggia, per lavarmi e levarmi di dosso ogni minimo alone di un rassegnato divenire obsoleto.

Franco D’Emilio

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