A Predappio, come altrove in Romagna, si avvicina il giorno fatidico della liberazione dal nazifascismo, ormai, per i nostalgici dell’“Ora e sempre Resistenza”, solo il pretesto, anacronistico e patetico, per giustificare il grottesco rito della “tagliatella partigiana”, ampiamente innaffiata da sangiovese farlocco, etichetta rigorosamente “rosso partigiano”, un vinaccio, subito alla testa, che fa rifuggire i suoi incauti bevitori dall’insistente, sotterranea domanda “Come sto a fare il partigiano antifascista senza più fascisti da combattere, neppure quelli, in passato, in agguato nelle fogne?”
Sì, perché è bene non dimenticarlo: con ampio consenso elettorale siamo governati dalla destra nel pieno rispetto della democrazia e della libertà; per la prima volta, una donna di destra è capo del governo a dispetto di tante petulanti femministe e tanti incerti di genere, né carne né pesce, gracidanti a sinistra. Nel frattempo, non sarebbe male un intervento del ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare a tutela della sugosa tagliatella italica, patrimonio identitario gastronomico nazionale, niente affatto taroccabile come “antifascista”.
Per dirla alla Antonio Di Pietro, “che c’azzecca?” oggi essere partigiano risulta davvero una domanda angosciosa, insinuante come un tarlo a rosicare la gamba superstite del tavolo sul quale per quasi ottanta anni è stata imbandita la colossale abbuffata antifascista di tante inconsistenti, personali fortune politiche, sindacali, culturali, perché no anche imprenditoriali. Ancora di più, questa, una domanda esistenziale sia per il vero, ormai raro, vacillante partigiano ultranovantenne; sia per quello più giovane, sconsiderato, perché irriflessivo, tesserato ANPI, quindi erede “ad occhi chiusi” del mito resistenziale, mai vissuto; sia per quei pochi partigianelli sbarbatelli, saputelli e fastidiosi, come un foruncolo sul viso: alcuni, addirittura, da poco “maturi” scolasticamente, nonostante tanta loro immaturità di conoscenza della storia italiana, pure per la cronica deficienza d’insegnamento da parte di insegnanti, spesso militanti e fiancheggiatori della stessa attuale, residua brigata partigiana.
Sapete qual è il vero problema di questi pseudocompagni, infidi agit-prop di un infondato antifascismo, solo divisivo degli italiani nella memoria di una trascorsa, sopita guerra civile e ben lontano da quella concordia di intenti con la quale tutti dovremmo guardare al futuro? È il loro ritorno a casa dal nostalgico bagordo partigiano, la bocca impastata dal sanguigno ragù resistenziale e dal vinaccio, trangugiato all’insegna di un minaccioso “chi non beve con noi, peste lo colga”, riformulazione di una memorabile battuta dell’attore Amedeo Nazzari: davanti allo specchio del bagno, nel riflesso del proprio volto, anche stremato dai Bella ciao a squarciagola, implacabile sorgerà il dubbio se ancora valgano la pena queste “tagliatelle antifasciste”, se proprio non vi sia nulla di meglio da fare per l’Italia che alzare il gomito nel nome di uno stomachevole antifascismo.
Franco D’Emilio