Stamani tra i palazzoni della strage di via Acca Larenzia

Acca Larenzia

Rimanda oggi, rimanda domani, non certo per mia volontà, eccomi stamani in via Acca Larenzia nel quartiere Tuscolano di Roma, sul luogo e nei dintorni dove il 7 gennaio 1978 rimasero uccisi tre giovani militanti del Movimento Sociale Italiano: un terribile pluriassassinio politico, maturato nel clima di odio ideologico e di violenza, spesso armata, tra gruppi contrapposti dell’estremismo di sinistra e di destra nei cruenti “anni di piombo”.

Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, diciannovenne il primo, diciottenne il secondo, caddero subito davanti alla sezione del MSI, dalla quale stavano uscendo alla fine di una riunione, ignare vittime dell’agguato da parte di un gruppo terroristico di sinistra, afferente ai Nuclei armati per il contropotere territoriale, come rivendicato nella cassetta audio, appositamente fatta ritrovare alcuni giorni dopo, vicino ad una pompa di benzina; un terzo, il ventenne Stefano Recchioni, anch’egli attivista della cosiddetta “destra sociale”, cadde poco dopo negli scontri con le forze dell’ordine, sempre sul luogo stesso dell’agguato, nel corso di una manifestazione di protesta, forse per un colpo sparato da un agente.

Dunque, sono qui al numero civico 28 della via che da allora denomina come strage di Acca Larenzia quel tragico avvenimento: mai individuati i responsabili dell’agguato e della successiva terza uccisione; resta secca ed esplicita, in alto e a sinistra dell’entrata della sede del MSI, una targa in pietra di altrettanto lapidarie parole a ricordo dei tre giovani missini “assassinati dall’odio comunista e dai servi dello stato”.

Dal 1979, alla ricorrenza di quel maledetto 7 gennaio, le vittime di Acca Larenzia vengono onorate dai tanti militanti di estrema destra, ma non solo, che accorrono per una commemorazione, la cui ritualità gestuale del saluto romano al grido di “presente!” per ciascuno dei tre caduti, proprio per il suo chiaro fine di sola memoria, così in una recente sentenza della Cassazione a sezioni unite, non può più ritenersi espressiva di una pericolosa volontà ricostitutiva del partito fascista. Per questo, ogni anno, cittadini liberi di esprimere il proprio pensiero, pure nel simbolismo della grande croce celtica, disegnata sulla pavimentazione esterna, tanti fascisti si ritrovano davanti al civico 28 di via Acca Larenzia per ricordare i loro morti in quel drammatico giorno di inizio gennaio ’78.

Vai e vedi che aria tira tra gli abitanti del posto“. Mentre scattavo fotografie, mi sono scoperto osservato da qualche finestra, pure da qualche passante, magari incuriosito sino a fermarsi per capire chi mai fossi e perché mai lì; un esaltato o il solito nostalgico o, molto più probabilmente, un estremista di destra rompicoglioni? La cosa mi ha fatto sorridere: se già solo valesse la teoria del Lombroso, non credo che dal mio aspetto fisico possano dedursi i tratti fisiognomici di ardito camerata oppure quelli di militante avanguardista della nuova destra radicale.

Grembiule da asilo e una bambola di pezza con trecce, stretta in un braccio, mi ha sorriso soltanto una bimba per mano alla mamma frettolosa; un corriere in consegna pacchi ha guardato me, poi la scritta MSI, di nuovo me con lo sguardo eloquente che “se tanto mi dà tanto…”; un signore con Il Messaggero sottobraccio mi ha fissato mugugnando, un altro, chissà forse vigile occhiuto, è sceso da un’auto bianca parcheggiata, accendendosi una sigaretta e fissandomi di tanto in tanto. Insomma, sono stato attenzionato, come usava fare il trascorso Ventennio verso i tipi sospetti.

Ho provato a chiedere qualcosa, ma nessuno disponibile, tutti di fretta o con “ho ben altro da pensare” oppure con uno stizzito “lasciateci in pace“! Solo il signor P., titolare di un bel bar poco distante, a proposito il caffè a Roma raramente oltre l’euro, si è lasciato andare, ogni tanto una grattata alla pelata, comunque mai sottovoce, quasi cercasse l’approvazione degli altri clienti: “Sì, ogni anno è un impiccio, però, dai, vengono, fanno quel che devono, poi via sino alla prossima. Certo, quelle morti ci hanno segnato, davvero troppo per il Tuscolano, difficile dimenticare. Io, allora ero cameriere sedicenne in una trattoria sull’Appia, mia madre mi telefonò dicendomi di non tornare a casa perché al Tuscolano era il finimondo con tre morti, uno m’era pure amico“.

Un saluto e sono fuori sotto una leggera pioggia, benefico lavacro da tanti tristi pensieri mattutini di morte, odio e violenza; mi incammino tra i palazzoni ravvicinati e soffocanti del Tuscolano, cercando qualche scorcio di cielo tra tanto scempio edilizio: almeno per un respiro e dimenticare la storia di tre giovani, uccisi per le loro legittime idee politiche di destra, ma, ogni anno, vivi ad Acca Larenzia al grido: camerata Franco Bigonzetti! Presente!; camerata Francesco Ciavatta! Presente!; camerata Stefano Recchioni! Presente!

Franco D’Emilio

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